Il grande Milan, brividi rossoneri sul palco di Sport Business Forum

Ecco insieme Baresi, Massaro e Sacchi in una meravigliosa partita della memoria. Davanti a un teatro strapieno si rievoca la sconfitta di Pasadena. E pure Berlusconi

Fabrizio Brancoli
Daniele Massaro, Arrigo Sacchi e Franco Baresi sul palco di Sport Business Forum a Belluno
Daniele Massaro, Arrigo Sacchi e Franco Baresi sul palco di Sport Business Forum a Belluno

La partita è stata decisa dagli episodi, quello che conta è il gruppo, il risultato fa bene alla classifica ma soprattutto al morale. E certo, ci mancherebbe altro. Cento, mille altri luoghi comuni, una foresta di parole facili, grigie quanto comode, perché tutti le proferiscono e poi le ripetono compulsivamente per anni, fino a lobotomizzare tutti: gli addetti ai lavori, i veterani stanchi, i giovani che dovrebbero cambiare e invece si riallineano.

Servirebbero i dioscuri del dribbling, servirebbero Garrincha o George Best, per scartare certe frasi fatte del calcio, lasciarle sul posto e portare la palla laggiù, lontano dai vocabolari decotti, per fare gol e non giocare sempre per lo zero a zero. Il teatro comunale di Belluno è intitolato a Dino Buzzati, sarebbe un sacrilegio violarne la memoria con messaggi dozzinali.

Sollecitati da una tripla intervista di Giancarlo Padovan – vicedirettore di Nord Est Multimedia, il gruppo che edita anche questo giornale e che organizza lo Sport Business Forum, ideato e promosso da Confindustria Belluno Dolomiti e Confindustria Veneto Est – questi dribbling riescono.

Accade nel nome delle sacre scritture che tramandano l’epica milanista e i suoi interpreti del mito. Come in una partita. Primo tempo con Franco Baresi e Daniele Massaro, l’uno silente e selettivo, tipo un guerriero saggio che parla in una grotta di montagna (e qui di montagne ce ne sono, vere, magnifiche, tutte intorno), l’altro esuberante e sicuro di sé, più berlusconiano di un’antenna televisiva negli anni ottanta.

Secondo tempo con Arrigo Sacchi, lento e profondo, ispirato, capace di mescolare il pallone con la riflessione sociale. Due incontri, lo stesso giornalista a condurli e quasi disegnarli, davanti a una platea strapiena.

La memoria di Sacchi

«Da ragazzo – racconta Sacchi – ho lavorato nel calzaturificio della mia famiglia. Mio padre mi ha lasciato una lezione chiara sin da quell’esperienza: se devi assumere qualcuno, diceva, per prima cosa devi sapere che cosa ha fatto in precedenza; e poi, se hai dei dubbi, non ingaggiarlo, perché una mela marcia è capace di rovinare tutte le altre. Io ho fatto l’allenatore ma noi viviamo in un Paese che non fa squadra. Noi difendiamo e speriamo. Purtroppo il calcio non l’hanno inventato i romani, che dominavano il mondo. Quello che vogliamo fare noi è una cosa da furbi, il “gioco” lo lasciamo agli altri. Siamo malati di individualismo e di protagonismo, con queste condizioni fare squadra è difficile. Con il Milan abbiamo spezzato questo schema».

Non si distingue quanto parli di calcio e quanto d’Italia, in questa terra di mezzo, sacrosanta, dove partite e gol sono una metafora della nazione. C’è, ovviamente, molto amarcord: gli inizi , l’immaginifico ritorno ai vertici del Diavolo post-riveriano, i trionfi in Europa, gli applausi dei napoletani alla storica vittoria rossonera del maggio 1988, che valse lo scudetto in sorpasso.

«Vorrei che le squadre fossero scelte dagli allenatori», sospira Arrigo. «Lo sai che non è più così, non è più possibile», replica Padovan. «E allora - è lapidario l’ex Ct – vuol dire che sbagliano. Sbagliano tutti».

Pasadena e Berlusconi

Due temi aleggiano, in questa partita della memoria: la sconfitta di Pasadena al mondiale del 1994, capace di bruciare, rovente e amara, anche a tre decenni di distanza. E poi, naturalmente, Silvio Berlusconi, amato, onorato, evocato.

Un Berlusconi del pallone, più che di politica o di emittenza. Ma la politica compare, improvvisa, proprio parlando del mondiale Usa. «C’era un’Italia che tifava contro la nazionale, non volevano un trionfo legato a Berlusconi; Andreotti certo non guardava al nostro presidente con favore». Il maledetto caldo (allenarsi a 50 gradi), l’infortunio di Baresi e il rientro miracoloso. Come un viaggio dell’eroe, la struttura narrativa teorizzata da Christopher Vogler, che era un saggista e non un mediano del Bayern.

Il “laser” di Baresi

Baresi sembra possedere il solito laser di quando giocava: va dritto al punto, sempre. «Il var? È giusto, ma toglie intensità al gioco e alle partite». «Se ci fosse stato il var ai nostri tempi – aggiunge Massaro – avremmo finito le partite in tre».

Narra Jorge Valdano, che di calcio e di storie se ne intende, che i giocatori del Real Madrid erano scioccati dai milanisti, in campo. «Non guardavano né loro né il pallone: guardavano solo Baresi. Così si rispetta un vero capo. E a ogni fuorigioco provocato, gli scappava un sorriso». E

cco, Baresi è ancora così, ha questa aura mistica dove convergono silenzi e decisione.

«Gli bastava uno sguardo, in campo e nello spogliatoio», racconta Massaro. Quanto a se stesso, l’esterno che divenne punta, il ricordo va alle sedute intense di Milanello: «Quando ogni giorno ti alleni contro la difesa più forte del mondo, non vedi l’ora che arrivi la domenica per giocare finalmente contro quelli scarsi»: applausi rossoneri, la sala per un attimo sembra San Siro.

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