Agordo, assolto il padre adottivo accusato di violenza sulla figlia: «Ferito nella dignità ma sono come rinato»
Condannato a 9 anni per violenza sessuale sulla figlia un agordino è stato assolto in appello: «Grazie a mia moglie»
AGORDO. Rinato dopo la sentenza. Il padre agordino, che rischiava nove anni di prigione per violenze sessuali su una figlia adottiva, è tornato in vita. Tra il processo con la condanna e l’appello con l’assoluzione, è passata un’eternità di sofferenza. Prima additato in paese come un orco, per non parlare di quello che gli sarebbe successo in carcere, secondo l’implacabile codice dei detenuti. Poi la liberazione, con una chiamata del nuovo avvocato difensore Cesare Stradaioli.
Quando la sua esistenza è finita nel frullatore, la sua dignità di uomo e papà si è lamentata, come se fosse stata ferita: «Mi sono certamente sentito ferito nella mia dignità personale, perché ero estraneo alle accuse. Allo stesso tempo, ho provato una grande amarezza, perché temevo che in questa vicenda ci andassero di mezzo le mie figlie adottive».
Una delle quali l’aveva accusato di uno dei reati più infamanti, salvo poi ritrattare in aula e non essere creduta. Ti arrivano in casa i carabinieri, che devono indagate, su delega della Procura della Repubblica: «È stato un periodo in cui mi pareva di stare in mezzo alla nebbia. Non capivo quello che stava accadendo e vedevo mia moglie che ne risentiva almeno quanto me. Un momento terribile, ad ogni modo speravo che finisse presto e l’esito fosse positivo, anche se sentivo dire cose bruttissime sul mio conto, anche da persone che mi conoscevano appena».
La famiglia sa essere fondamentale e c’è stata una donna, che ha avuto un ruolo decisivo: «Non avrei potuto affrontare questa tremenda esperienza senza l’appoggio di mia moglie, che è sempre stata al mio fianco e mi ha sostenuto nei momenti più difficili».
Sguardi torvi in paese e mezze parole sussurrate alle spalle: «Eravamo considerati un po’ strani, perché avevamo adottato due gemelle dell’Est. Dopo la condanna, qualcuno mi guardava male e qualcun altro mi insultava da lontano, coinvolgendo la mia signora. Le persone che ci conoscono meglio, invece, sapevano che ero innocente e ci hanno appoggiato, ma non è mancato chi ha pensato: “Hai visto quello con le sue figlie adottive?”».
La sentenza di primo grado non può essere una sorpresa per chi il reato l’ha commesso. Ma per chi non ha fatto niente di male? «Ero distrutto, annientato. Non potevo crederci. Avevo deciso di farmi interrogare e ho risposto a tutte le domande, senza pensare che sarei stato condannato, senza speranza per un delitto che orribile che non avevo commesso, per di più su due figlie che amavo e amo ancora. Non ero proprio capace di immaginare il carcere per nove anni».
A Venezia, la situazione si è ribaltata: «Non riesco ancora a descrivere come mi sento: mi è stata restituita la vita e il primo pensiero è andato dritto a mia moglie, poi ho pensato alle nostre due ragazze, che adesso sono adulte e hanno figli».
La vita è ripartita. Potrà tornare come prima? «Non lo so. Sono rimasto io: un uomo che ha vissuto onestamente del lavoro per la famiglia. La differenza è che ora sono un uomo libero. Vorrei dimenticare e ringrazio tanto il mio avvocato, che mi ha sempre esortato a non perdere la fiducia nella giustizia, ridandomi la vita».
Cesare Stradaioli del foro di Belluno non aveva un lavoro facile. Errore giudiziario? «Il libero convincimento del giudice resta sacro e intangibile, ma chiunque può commettere degli sbagli. E i rimedi ci sono».
Lacune nelle indagini, che hanno portato il precedente difensore a evitare un rito alternativo? «Da quello che so, è stato un po’ accidentato il dibattimento, nel senso che le accuse sono state ritrattate dalla ragazza e la sorella è stata un po’ incoerente in tribunale».
La giovane donna non è stata più creduta: «È così. Non è stata ritenuta credibile, in questo modo il mio assistito ha potuto difendersi fino a un certo punto, fermo restando che era e rimane innocente».
Nove anni potrebbero sembrare tanti, in realtà non lo sono: «Ci stanno, tenuto conto delle aggravanti contestate, a cominciare dal fatto che la ragazza aveva meno di 14 anni».
Gli argomenti vincenti dell’appello? «Stanno anche nelle motivazioni. Se non ritieni credibile la parte offesa, devi spiegarmi perché. Poi nel capo d’imputazione mancavano dei dati specifici: si parlava di 2009, senza scendere nei particolari. Lo stesso procuratore generale aveva chiesto l’assoluzione e il caso dovrebbe essere chiuso qui».
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