«Anche quegli uomini possono cambiare»

FELTRE . «La violenza genera dolore sicuramente in chi la riceve e in chi assiste, ma anche in chi la compie. Si adottano comportamenti violenti perché danno dei vantaggi immediati, ma sul lungo...

FELTRE . «La violenza genera dolore sicuramente in chi la riceve e in chi assiste, ma anche in chi la compie. Si adottano comportamenti violenti perché danno dei vantaggi immediati, ma sul lungo periodo generano un deserto interiore che porta all’autodistruzione, finendo per trascinare in questo annichilimento, fatto di odio e rancore, anche tutto il proprio mondo famigliare». E quando gli uomini maltrattanti si trovano soli e “nudi” di fronte a uno specchio muto, non sempre sono disposti a interrogarsi sulle responsabilità che hanno portato a queste condizioni, di solitudine e sofferenza.

Questo è quanto sostiene Michele Poli, presidente del Centro ascolto uomini maltrattanti a Ferrara, venuto a Feltre nell’ambito di un mercoledì della salute organizzato dall’Usl Dolomiti sul tema della violenza di genere. Il professionista però ha anche detto che di centri analoghi a quello che dirige in Emilia, vicini alla provincia di Belluno, ce ne sono.

Almeno quattro: il centro Ares di Bassano del Grappa, Cambiamento maschile di Montebelluna, Percorso antiviolenza per uomini di Trento e servizio Uomini maltrattanti di Padova.

In base alla sua esperienza, quanti uomini sono disposti a riconoscere di avere un problema, senza provvedimenti di ordine giudiziario, cioè senza mai aver mandato la compagna in pronto soccorso per percosse? «Al nostro centro sono arrivati nell’ultimo anno 24 uomini, solo 7 di questi era stato denunciato dalla partner al momento dell’ingresso e solo quattro di questi sette sono stati inviati dal Tribunale dei minori o mediante altre prescrizioni legate a percorsi giudiziari. Quindi un 70-80 per cento arriva spontaneamente. Gli uomini che fanno violenza spesso si rendono conto che hanno un problema relazionale, ma ancora poco si conoscono i nostri centri».

Quale può essere la strategia per intercettare e aiutare queste vittime di se stessi? «Non leggere come mostri questi uomini. Sono persone normali, spesso bene inserite nella società. È la società malata di maschilismo che genera uomini violenti, in prima battuta, non si tratta di problemi psicologici. Perciò occorre fare un lavoro che coinvolga la società tutto e la sua cultura in tutti i suoi aspetti: legali, economici, storici, linguistici, religiosi, scientifici. Occorre riflettere su cosa sono e come stanno cambiando le relazioni affettive, perché il rischio è ritrovarsi incapaci di gestire il cambiamento. Questo genera ansia e frustrazione soprattutto negli uomini abituati ad affidarsi ad un ruolo sociale sopravvalutato rispetto a quello femminile».

Tanto si parla di uomini violenti, poco si parla di quanto possano soffrire queste persone quando vengono lasciate, denunciate per molestie (anche morali), abbandonati anche dai figli che hanno potuto prendere le misure e le distanze da un padre tanto problematico. Come si possono aiutare? «Parliamo di circa un terzo della popolazione maschile secondo i dati Istat, quindi sono molti i presidi che dalle forze dell’ordine a quelli sanitari possono porre l’attenzione sul problema. Occorre però volerlo far emergere con determinazione, altrimenti la violenza viene rimossa o per connivenza culturale o per incapacità di affrontarla. L’importante è non concentrarsi sulla sofferenza di questi uomini se si vuole aiutarli, seppur tenendola presente, altrimenti finiamo per farli sentire delle vittime quando sono i carnefici. Invece, è focalizzandosi sulle azioni violente da loro compiute e sulla loro responsabilità, che possiamo portare l’idea che un cambiamento è possibile». (l.m.)

Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi