Belluno: musica e fede in tante lingue

La festa dei popoli fa dialogare la città e gli immigrati
La platea alla festa dei Popoli
La platea alla festa dei Popoli
BELLUNO. «Il Padre nostro» è uno solo anche se a recitarlo sono tante voci, in tante lingue diverse. Il segno dell'integrazione, ancora lontana dall'essere compiuta, inizia così alla festa dei Popoli, con mani che si stringono a formare un girotondo ideale tra immigrati ed autoctoni. A fare da collante, nella sala del centro diocesano in piazza Piloni, le parole di don Luigi Canal: «Il signore è uno solo, che lo si chiami Dio o Allah». Ma non solo. Anche la musica, linguaggio universale crea fratellanza. A coordinare, il cantautore Giorgio Fornasier, che per rompere il ghiaccio, ha scelto di intonare «No sta piander Catineta», un classico dell'emigrazione bellunese. «Ce ne sono di più nel mondo - dice - di quanti ne abitino in città e provincia». E' perchè? «Perchè le montagne sono dure da mangiare». Così rispondevano negli anni Cinquanta, gli emigranti ai ricchi signori che frequentavano le Dolomiti in cerca di relax. Dai filippini, agli africani francofoni, dai rumeni, agli albanesi, ai moldavi, agli ucraini: le rappresentanze dei paesi sono saliti sul palco per intonare canzoni nella loro lingua, per condividere con i connazionali e non, l'emozione per le tradizioni. «Vivo a Belluno dal 2001 - racconta Rojo, 35 anni, che arriva dalle Filippine - mi sono trasferito qui per lavorare, prima in un'azienda agricola ed ora in una di occhiali. Questa è una bella festa, perchè ci aiuta a conoscere gente». Ed è questa una delle finalità della festa dei popoli, l'integrazione attraverso la condivisione delle culture. «Sono soddisfatto - commenta don Luigi Canal, direttore del centro missionario della diocesi di Belluno-Feltre - per la partecipazione quest'anno, anche di tanti bellunesi. La difficoltà maggiore rimane proprio quella di coinvolgere i nostri concittadini e convincerli a non guardare con diffidenza gli immigrati, ma ad aprire i cuori». Invitati d'eccezione quest'anno, i profughi libici. «Ho conosciuto - continua don Luigi - la comunità che alloggia nella comunità diocesana a S. Marco di Auronzo. Sono 18 bravissimi ragazzi, che si trovavano in Libia per lavoro e che hanno lasciato le loro famiglie in Niger e Costa d'Avorio. Mi hanno raccontato di essere stati trattati come schiavi e di essersi dovuti adeguare. Poi con la guerra sono stati imbarcati verso i nostri porti. Anche se professano una religione diversa dalla nostra, non hanno dato segni di fondamentalismo, ma al contrario di grande rispetto». I profughi non si sono visti alla festa, ma del resto hanno l'obbligo di non allontanarsi dal luogo nel quale sono ospitati.

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