Addio Armando, il bellunese maestro dei bonsai
Dal Col aveva 90 anni: nato a Tarzo, si era subito trasferito prima a Longarone e poi a Belluno, prima di tornare nel paese natio dove aveva aperto il “Giardino Museo Bonsai della serenità”
Addio al maestro del bonsai. È morto Armando Dal Col, nato a Tarzo 90 anni fa e poi trasferitosi prima a Longarone, poi Belluno, prima di tornare nella paese natio. La sua passione, ma anche la grande competenza, avevano trasformato in arte la l’amore per gli alberi in miniatura, grazie al Giardino museo Bonsai della Serenità aperto in terra trevigiana. Un gioiello naturale che si estende su un’area di mille metri quadri che accoglie un migliaio di piccole piante. «Il bonsai è un’arte senza tempo. Non è solo tecnica, non è solo giardinaggio, è filosofia, un immergersi nella natura. È espressione di una scena naturale in miniatura»
Quella di Armando Dal Col è stata un’esperienza di vita incredibile, tutta da ascoltare e trasmettere. La storia di un amore sbocciato già in tenera età e – scampata, non senza dolore, la tragedia del Vajont – coltivato da vero pioniere nella maturità, anche viaggiando tra Filippine e Giappone, fino a portare un po’ di Oriente prima nel Bellunese e poi tra le alture trevigiane.
Una passione di famiglia
Nato nel 1935 a Tarzo, Armando cresce però a Longarone. Finite le elementari, avrebbe voluto continuare a studiare, nello specifico scienze e tecniche. Ma i genitori hanno bisogno di lui nel negozio di frutta e verdura. Così il fanciullo comincia a girare le frazioni del paese con un carretto a mano. A 12-13 anni il primo avvicinamento all’arte che abbraccerà per tutta la vita: «Mio nonno aveva tanta campagna e diversi alberi da frutto», raccontava Armando, «mi piaceva moltissimo vederli nel periodo delle fioriture. Indicando un albero fiorito, come un flash quello si proiettò sul palmo della mia mano. Io lo vedevo piccolo, e nella mia mente dicevo: “Come mi piacerebbe creare un albero in miniatura, da poter tenere tra le mie mani, dentro una ciotola”. Questa visione onirica, nei momenti di malinconia e solitudine, riaffiorava sempre».
Nella primavera del 1963, Armando si trasferisce con la prima moglie e la prima figlia da Longarone a Belluno. Un po’ per essere più vicini al mercato ortofrutticolo all’ingrosso, un po’perché si parla di un’imminente frana del Monte Toc. Nel frattempo, trasloca le prime piante in vasi di terracotta e arricchisce la sua collezione con un pesco da frutto e un cotogno da fiore.
La notte del disastro del Vajont
Lui e la moglie si salvano miracolosamente dal disastro del Vajont: «Quella fatidica sera del 9 ottobre», ci aveva raccontato, «alle 21 eravamo di ritorno dalla Valzoldana. Passiamo a salutare mia madre. Era anche appena tornata dalla Germania mia sorella Silvana. “Fermati a cena con noi”. “Mamma, è un po’ tardino, verremo domenica”. Così alle 21.30 partimmo da Longarone verso Belluno». Quella stessa notte, la catastrofe. «Il mattino dopo accesi la radio alle 6 e sentii la tragica notizia: “Il Monte Toc è venuto giù, si è affossato nella diga del Vajont. L’acqua è uscita, Longarone non c’è più”. Partii subito con la macchina», richiama alla memoria Armando, «arrivai fino a Ponte nelle Alpi, poi venni bloccato perché era impossibile continuare. A piedi, piano piano, lungo tutto il percorso, raggiunsi il discendente vicino Fortogna. Lungo il greto del Piave, cumuli di cadaveri di uomini e animali. Una scena davvero impressionante. Mi misi a cercare i miei genitori, che abitavano in una casa all’ultimo piano in piazza Gonzaga. Invece non c’era più niente. Una desolazione sconvolgente. In quella tragica sera persi i miei genitori, una sorella e un nipotino».
La prima mostra
Nel 1966 Armando legge su una rivista che alla prima Euroflora, mostra organizzata alla Fiera di Genova, dei giapponesi avevano esposto degli alberi in miniatura coltivati artisticamente in vaso. Parole che incuriosiscono il cultore, che allora aveva già 150-180 piante così concepite. Un’altra lettura è decisiva: un pezzo del 1978 di Carlo Oddone, che cercava disperatamente eventuali appassionati in Italia. Armando lo contatta e lo va ad incontrare a Torino. È l’inizio di un percorso che porterà, nel 1981, alla fondazione dell’Associazione italiana Bonsai. Sono anni importanti per la diffusione dell’arte a livello nazionale (stringendo un fondamentale legame con la Nippon Bonsai Association) e locale (con la nascita dei Bonsai Club di Belluno e Feltre). Le creature di Dal Col prendono a far parlare di sé. All’Euroflora del 1996, ad esempio, colpiscono l’attenzione di un maestro filippino, il quale lo invita a un soggiorno nell’arcipelago del Sud-Est asiatico. Qui si innesta una serie di circostanze che porta infine Armando – rimasto vedovo nel 1978 – a conoscere Haina: i due si sposano a Manila il 14 febbraio 1987. Da lì in avanti la seconda moglie diventerà sua discepola fedele ed appassionata, dotata di talento e intenso amore per la Natura.
Il trasferimento a Tarzo
Nel 1996, causa messa in vendita dell’appezzamento di Chiesurazza, Armando deve trovare una nuova sistemazione. Il fratello offre la soluzione: una vecchia casa con collina nel centro di Tarzo, poco distante dalla strada statale. Uno stabile da ristrutturare, ma che poteva fare al caso suo. Compiuti gli essenziali lavori di restauro, nel dicembre 1997 Armando e Haina si trasferiscono definitivamente nella Marca con tutta l’immensa collezione di bonsai. Il passo successivo è dare un nome a quel luogo magico, quell’altro mondo raggiungibile risalendo i vecchi gradini di pietra sul retro dell’abitazione. Presto fatto, vista la serenità provata da amici, allievi, curiosi, nell’entrarvi: Giardino Museo Bonsai della Serenità; in giapponese, Sei Wa Museum Bonsai En. Tra gli splendidi bonsai che vi si possono incontrare, ce n’è uno con una storia speciale: nel 1970 in Cansiglio vide, ai margini del bosco, in mezzo alle rocce, un grosso arbusto di faggio con tronco e rami massacrati da pallini di carabina. «Gli diedi una grossa potatura», raccontava. «Fu quasi un colloquio tra me e la pianta. Lo curai per cinque anni sul posto, portandogli acqua, concimi, fitostimolanti. Nella primavera del 75 decisi di estirparlo. Tagliando la grossa radice che affondava tra le rocce, vidi una grande concentrazione di anelli. Arrivato a casa, ne tagliai una fetta, e con la lente d’ingrandimento riuscii a contare 202 anelli. Sono 51 anni che curo la pianta».
L’esperienza in Giappone
Quel bonsai dunque ha oggi circa 250 anni. Una storia, quella del Faggio Patriarca, che nel 1982 Armando presenta alla Nippon Bonsai Association. La vicenda colpisce il maestro vasaio di fiducia della famiglia imperiale del Paese del Sol Levante, che spontaneamente si propone di realizzare un pregiato vaso su misura, che gli faccia da casa. Nel 1986 il faggio è stato esposto al concorso internazionale promosso dall’associazione giapponese, venendo consacrato e premiato come “eccellente” e “illuminato”.
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