«Calatafimi Ha sparato per uccidermi»

Mel: a un mese esatto dal fatto, parla l'ingegnere gambizzato durante una lite in un pub
Il polpaccio sinistro dell’ingegnere forato da un colpo
Il polpaccio sinistro dell’ingegnere forato da un colpo
MEL. Sono le 21.30 del 15 novembre, esattamente un mese fa, quando al Pub Casa Rossa di Mel scoppia il finimondo. Angelo Calatafimi, un calabrese che vive a Trichiana, arrivato in provincia di Belluno nel lontano 1978, sulla base di un soggiorno obbligatorio, entra nel locale della sua ex compagna e svuota l'intero caricatore di una pistola calibro 765 (detenuta illegalmente) sulle gambe di Ivo Facchin, un ingegnere, originario del Feltrino. È un fatto che scuote non solo il paese, dove è avvenuto l'agguato, ma un'intera provincia, sempre ai vertici delle classifiche nazionali in fatto di vivibilità, anche per il basso tasso di azioni criminose. Sul quell'episodio si sono dette tante cose. E, soprattutto, sono state fatte le ipotesi più disparate. Dal movente sentimentale (l'ex compagna di Calatafimi, un'avvenente moldava, sta ora assieme a Facchin), ad un regolamento di conti legato ad uno "sgarro", fino alla provocazione a sfondo razziale (l'ingegnere che avrebbe dato del "terrone" al calabrese). Un mese dopo il fatto, Facchin (che è assistito dall'avvocato Pierluigi Cesa), ha deciso di chiarire la sua posizione. Ingegner Facchin, innanzitutto come sta? «Mi sto riprendendo, a fatica. Ma ho parecchi problemi alla circolazione della gamba destra. Una pallottola mi ha reciso l'arteria femorale. Calatafimi ha colpito anche la sinistra: le ha riservato il primo colpo. Ma almeno in quella, al momento, non ho scompensi circolatori. Sono vivo per miracolo. E questo lo devo anche alla mia compagna, Ina». Per quale motivo? «Perché mi ha subito stretto uno straccio alla gamba in modo da fermare l'emorragia e col ghiaccio ha cercato di coagulare il sangue. Ina ha studiato da infermiera in Moldavia. Se non avesse avuto la prontezza di riflessi di praticare il primo soccorso, in attesa dell'ambulanza, in tre minuti me ne sarei andato al Creatore. Le devo la vita e la sposerò. Stiamo soltanto attendendo i documenti dal suo paese». Ingegnere, andiamo per ordine. Cosa ricorda di quella sera? «Ero al pub, saranno state circa le 21.30, quando Calatafimi è entrato assieme alla figlia di Ina. Io mi trovavo vicino al bancone». Vi siete detti qualcosa? «No, nulla. Loro si sono diretti in cucina, dietro al bancone, e io li ho seguiti. La figlia di Ina, a quel punto, ha detto che voleva parlare da sola con la madre. Così, io e Calatafimi siamo usciti dalla cucina e ci siamo diretti di nuovo verso il bancone». Sempre in silenzio? «Sì, né io né lui abbiamo proferito parola. Eravamo fianco a fianco. All'improvviso, quando mi sono trovato davanti al bancone, nei pressi della porta, ho visto che lui ha fatto uno scatto repentino, scostandosi da me di due o tre metri. Ha estratto la pistola ed ha sparato». Quanti colpi? «Non ricordo, saranno stati sette o otto. Tanti quanti ne conteneva l'intero caricatore della pistola. Basta contare i fori che ho nelle gambe. Non m'ero accorto che avesse una pistola. So solo che il primo colpo me l'ha riservato alla gamba sinistra. Poi, ho sparato una sequenza di colpi, soprattutto nella destra. Io ero appoggiato con la schiena al bancone e mentre sparava, cercavo di trascinarmi indietro. Stavo quasi per svenire. Ma quello che è più grave è ciò che ha fatto dopo». Che cosa? «Dopo avermi scaricato addosso tutte quelle pallottole, si è avventato contro di me e mi ha dato una serie di calci sulla coscia destra. Sulla gamba messa peggio. Mi sembrava impossibile quello che stava succedendo». E poi? «Lui è scappato con la figlia di Ina mentre la mia compagna è accorsa per soccorrermi. Poi è arrivata l'ambulanza e mi hanno portato all'ospedale di Feltre. Da qui mi hanno trasferito, successivamente a Treviso, dove sono stato sottoposto ad un intervento chirurgico per tre ore e mezza». Lei prima ha detto di non aver mai scambiato parole con Calatafimi, quando è arrivato. «E lo confermo. Sono state dette e scritte tante cose su di me, ma un aspetto tengo a precisarlo e per questo ho voluto parlare: io non ho mai pronunciato parole a sfondo razziale, tipo "terrone", nei confronti di Calatafimi. Né il giorno della sparatoria al pub, né tanto meno nel corso della precedente aggressione». Dunque, c'è un precedente? «Certo, le forze dell'ordine hanno la mia denuncia. È successo il 22 settembre scorso». Ci racconta cos'è accaduto quel giorno? «Premetto che non avevo mai visto Calatafimi prima di allora. Verso le 20.30, ero davanti al pub quando ho visto arrivare un'auto con, all'interno, due uomini. Alla guida c'era Calatafimi. Ho subito intuito che era lui perché Ina me l'aveva descritto. Ha posteggiato l'auto nello spiazzo davanti al pub ed è sceso. Mentre scendeva, mi fissava ed aveva uno strano ghigno. Mi è venuto incontro con la mano destra dietro la schiena, come se nascondesse qualcosa. Quando mi è stato di fronte, con un movimento improvviso, ha estratto un manganello di legno. Voleva colpirmi in testa ma sono riuscito a disarmarlo. Non contento è andato poi a prendere il manico di un piccone, di circa 60 centimetri. Anche in quel caso sono riuscito a bloccarlo. Infine si è diretto verso l'auto ed ho capito che stava estraendo un coltello. Ho urlato: "Ha un coltello, ha un coltello". A quel punto ha desistito e se n'è andato dandomi dello "stronzo". E io gli ho risposto: "Ci vediamo dal giudice". Nel frattempo qualcuno ha chiamato le forze dell'ordine». C'erano testimoni? «Sì» Tra la prima e la seconda aggressione, vi siete più incrociati o visti? «No». Domanda d'obbligo, ingegnere: qual è il movente di tutto ciò? «L'ho già riferito agli inquirenti. Posso solo dire che ho delle ipotesi dettagliate, suffragate da fatti specifici. Voglio chiarezza ma preferisco che le indagini facciano il loro corso, senza interferenze». Calatafimi ha sparato soltanto perché voleva darle una lezione? «No, voleva uccidermi. Ne sono sicuro. L'ho capito dalla determinazione con la quale mi ha aggredito, scaricandomi quasi un intero caricatore sulla gamba destra per poi accanirsi sulla stessa con dei calci». Non sarebbe stato più semplice spararle al cuore o alla testa? «Ma lui è furbo. Mirando alle gambe voleva crearsi una scappatoia in sede giudiziaria per poi dire che l'omicidio era una conseguenza non voluta». Ingegnere, ha paura? «Certo che ho paura, ma cerco di combatterla». Come? «Sono tornato qui, al pub. Per vincere la paura. Ma anche per aiutare Ina».

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