Calonego: «Abbandonato dallo Stato»
Terroristi di sicuro. «Altrimenti non avrebbero tentato di venderci allo Stato islamico». Danilo Calonego, il tecnico bellunese rapito in Libia tre anni fa e rimasto prigioniero per 47 giorni insieme a due colleghi della Conicos, non può credere al fatto che lo Stato gli abbia negato i benefici per le vittime del terrorismo previsti dalla legge 206 del 2004. E si sente abbandonato: aveva presentato la domanda il 9 agosto dell’anno scorso e la Prefettura di Belluno gli ha risposto che «dalle indagini effettuate dalla polizia giudiziaria, non sono emersi elementi certi della matrice terroristica del sequestro». L’inchiesta è stata aperta e chiusa dalla Procura di Roma.
Il pensionato di Sedico aveva dieci giorni di tempo per produrre le proprie osservazioni, ma il tempo è scaduto e il procedimento amministrativo sarà chiuso, a meno che l’avvocato di fiducia Giorgio Azzalini non riesca a ottenere una proroga e non produca altri documenti: «C’è un fondo per le vittime del terrorismo, che serve a risarcire chi è stato rapito», spiega il legale, «essendo parti offese non sappiamo cosa ci sia nel fascicolo della Procura romana, in mancanza di indagini delle autorità libiche, e non abbiamo elementi per dire il contrario di quello che dice la magistratura. Ma non c’è dubbio che Calonego sia rimasto prigioniero per quasi due mesi di un’organizzazione terroristica, senza le medicine di cui aveva bisogno e in una situazione di grande sofferenza. Sottolineo che c’è il fondo vittime della strada, che ti paga i danni se il colpevole dell’incidente scappa via: al di là del ritardo, possibile che il mio assistito non abbia lo stesso diritto?».
Danilo Calonego era stato rapito il 19 settembre 2016, all’aeroporto di Ghat, insieme al piemontese Bruno Cacace e al collega italo-canadese Frank Poccia. Si stavano occupando della manutenzione dello scalo aereo ed erano stati bloccati a bordo della macchina sulla quale viaggiavano da un gruppo armato: «Sette giorni a pane secco e acqua», ricorda ancora, «siamo stati trattati male nel corso della prima settimana, durante la quale i nostri carcerieri hanno cambiato almeno altrettante volte covo. Meno male che parlavo bene l’arabo, altrimenti non saremmo usciti vivi da questa situazione. Solo nella seconda fase del sequestro la nostra vita è migliorata e avevamo addirittura un condizionatore, ma sempre il kalashnikov puntato sulla fronte».
Nessuno dei rapitori aveva interesse a ucciderli, perché avevano un grande valore economico: «Ci avrebbero venduti all’Is oppure ad Al Qaeda o ancora ai nigeriani Boko Haram. All’inizio, eravamo legati e bendati e su questo ci sono dei video che ha visionato anche la Farnesina. Volevano soldi e si è parlato di 4 milioni di euro per finanziare la guerra santa. Non erano banditi, semmai terroristi. Il loro capo era molto alto e mi ricordo che aveva la pelle olivastra e liscia come quella di una donna. Probabilmente l’Is ci avrebbe fatto a pezzi, filmando la nostra esecuzione. Ho avuto molta paura».
Il pagamento del riscatto e la mediazione della tribù di Tuareg hanno sbloccato la situazione il 5 novembre: «Dopo 47 giorni, siamo stati liberati. Quella sera temevamo di morire e ho anche pianto, ma siamo stati rassicurati sul fatto che, nella notte, saremmo tornati a Roma. È andata davvero così». —
Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi