Cinque ambulatori agli specializzandi. I sindacati: «Lasciati soli con 1.200 pazienti»
BELLUNO. Il medico di famiglia non è una più una professione ambita, malgrado sul territorio provinciale, e in generale in tutta Italia, ce ne sia un grande bisogno. Lo testimonia il fatto che su circa 700 iscritti oggi in Veneto alla Scuola di formazione in medicina generale, soltanto cinque hanno accettato di entrare in ambulatorio nel Bellunese e altrettanti nella Marca trevigiana, per seguire fino a 650 pazienti.
Di questi cinque, informa l’Ulss 1 Dolomiti, tre stanno lavorando nel distretto di Belluno e due a Feltre. Un numero che è destinato a non rispondere alle esigenze del territorio dove soltanto lo scorso anno i posti vacanti di medicina generale erano 24.
Molti dei neo laureati in questi anni di pandemia sono stati impiegati nelle Usca, le unità speciali di continuità assistenziale. A fare questo lavoro sono stati chiamati proprio i giovani laureati in Medicina, che con questa attività potevano svolgere il tirocinio con un compenso orario di 40 euro. Un lavoro intenso durante la pandemia che poteva portare a guadagnare anche fino a 400 euro al giorno.
In questi mesi, comunque, si è cercato di tamponare una carenza di figure specialistiche con incarichi provvisori, ma non è servito a molto visto che l’emorragia di camici bianchi di famiglia sta continuando.
I numeri scarni relativi ai neolaureati impiegati nella medicina di famiglia, cozzano in modo chiaro con l’idea della Regione, tradotta in un progetto di legge, di reclutare dal bacino degli specializzandi il personale necessario per coprire le falle del sistema. L’idea, inoltre, non è piaciuta per nulla ai sindacati di categoria che hanno già espresso molte perplessità sull’operazione veneta.
Lo Snami
«Certo che il medico neo laureato è già abilitato a svolgere la professione», sottolinea Gianluca Rossi, segretario dello Snami bellunese, «ma quello che mi chiedo è come mai in un settore delicato come quello della medicina dove si ha a che fare con la salute delle persone, i medici che stanno imparando una professione, devono professarla prima di averla imparata. In nessuno impiego si chiede una cosa del genere. Come Snami», prosegue Rossi, «avevamo chiesto alla Regione di considerare l’opportunità di far affiancare questi giovani in formazione da tutor negli ambulatori e comunque di assegnare loro un numero graduale di assistiti».
Rossi pensa a questi «poveri giovani messi di fronte a pazienti con richieste spesso pressanti, dovendo anche seguire i corsi di formazione e i tirocini pratici. Come faranno? Una situazione del genere non possiamo pensarla per un neolaureato che approdi durante la specializzazione nell’area dell’urgenza-emergenza. Come è possibile lasciare un medico in fase di preparazione da solo in un Pronto soccorso? Anche per questi serve la presenza di medici esperti», dice ancora Rossi che poi conclude evidenziando che «non possiamo pensare che un giovane sia incentivato a fare una professione dove la parte burocratica ormai la fa da padrona e dove la riconoscenza da parte dei pazienti ormai è diventa una cosa rara».
L’ordine dei medici
«Quella del cosiddetto dottorino messo nel Pronto soccorso o in ambulatorio sul territorio non può essere una soluzione», dice il presidente dell’Ordine dei medici, Stefano Capelli che aggiunge: «Quello che stiamo scontando oggi è una cattiva programmazione a livello centrale e regionale. Non si è pensato per tempo a quali effetti potevano avere questi piccoli numeri di accesso alle scuole di specializzazione. La sanità finora è stata usata solo per fare cassa, e ora si raccolgono i risultati. Si poteva, in questi anni, giungere a soluzioni condivise che invece non si sono volute accogliere. Quello che va cambiato è il sistema se poi alle scuole di specialità non si presentano candidati».
La replica di Zaia
Il governatore Luca Zaia, respinge le accuse. Difende progetto e professionalità. «Gli specializzandi – dice – sono medici, laureati in Medicina e chirurgia e abilitati. Sono dei professionisti: è vero che la specialità non è irrilevante, e che è fondamentale che ci siano le Scuole di specialità. Ma è pur vero che comunque questi sono medici laureati, dei 700 assistiti che potevano avere si va a 1.200: questo è il percorso. Vuol dire che entrano nel vivo della specialità che studiano. Da qui a dire che la salute dei cittadini è messa a repentaglio certamente no. Sono gli stessi medici», conclude il presidente del Veneto, «che suonavano al nostro campanello di casa come Usca durante il Covid, allora nessuno si era posto il problema che erano “solo” laureati in Medicina e chirurgia».
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