Con l’Artva a zig zag lungo la valanga, «Tra vita e morte solo pochi minuti»
BELLUNO. Come si salva una persona che finisce sottola neve e che sta per soffocare? Paola Favero, alpinista, scrittrice, 61 anni, cinquanta di scialpinismo, già comandante dei Carabinieri Forestali di Vittorio Veneto, deve la vita a Mario Vielmo. Il 30 marzo 2022, mentre scendeva con gli sci dalla cima del monte Baset, in Turchia, è stata travolta da una valanga e Vielmo, in sette minuti, è riuscito a rintracciarla sotto un metro di neve, usando Artva, sonda e pala. Dopo aver già salvato un altro compagno di spedizione. Vielmo, guida vicentina, ha già conquistato 12 “8 mila”, fra due mesi il 13°. È reduce dal salvataggio, nel luglio 2021, di due alpinisti vicino alla vetta del Gasherbrum I, in Karakorum; uno di loro era caduto in un crepaccio e la sua compagna, pancia a terra, cercava di trattenerlo per la corda, mentre lei stessa stava scivolando. Ma torniamo in Turchia, sul Baset, 3.646 metri. Sono 13 gli amici in spedizione su quelle nevi. Quella mattina del 30 marzo, a quota 3.400 si stacca un fronte di 200 metri circa di neve. Scende fino a 2.950 metri, travolgendo sei componenti. Vielmo è l’ultimo del gruppo, impegnato nella discesa.
Come si è comportato appena ha visto scomparire metà dei suoi compagni?
«Sono una guida alpina, prima che uno scalatore. Mi hanno insegnato che chi resta in piedi deve guardarsi intorno se ci sono altri distacchi. Ho constatato che tutto era fermo, quindi mi sono lanciato con gli sci sul terzo fronte della valanga, quello dell’arresto».
Ovviamente tutti eravate dotati di Artva, sonda e pala.
«Certo, altrimenti non si parte. E l’Artva deve essere accesa, in modalità trasmissione. Lo certifica il capogita».
La figura del capogita è consigliabile?
«È obbligatoria, perché in caso di emergenza è lui a dare gli ordini».
Lei dunque ha constatato che non ci fossero altri smottamenti e ha raggiunto l’area dell’arresto. Artva in mano che cosa ha fatto?
«Premetto che una persona sotto la neve ha possibilità di salvarsi se viene recuperata in 13, al massimo in 15 minuti. Quindi non si può perdere neppure un secondo. Ho fatto spegnere l’Artva a tutti quelli rimasti incolumi e ho cominciato a cercare con il mio strumento, attraversando il fronte della valanga in diagonale, dentro una misura massima di 20 metri tra una diagonale e l’altra. Questo perché l’Artva riceve il segnale a una distanza di 30, 40 metri da chi lo trasmette. Ho visto un bastoncino in superfice e mi sono avvicinato».
A questo punto?
«Il nuovo modello di Artva è digitale, quindi ti segnala le distanze. Avanzi a croce e individui, metro dopo metro, dove sondare e scavare. Ho riscontrato che la distanza minima erano 80 centimetri. Ho prelevato la sonda, che è una specie di telescopio, e l’ho calata sulla neve. Sonda che può arrivare fino a 3 metri, ma in questo caso segnava 40 centimetri. La sonda ha individuato il casco di questa persona. Ho ordinato ai miei di cominciare a scavare poco a valle, da sotto, in modo da non rischiare di colpire la persona».
In quanti minuti l’avete recuperato?
«In cinque minuti dall’arresto della valanga: quattro minuti di ricerca, un minuto per togliere la neve dalla testa. L’amico è uno scialpinista, di 75 anni, un esperto. Individuato il volto, per prima cosa gli abbiamo liberato le vie aeree. Respirava, era cosciente, un po’ sorpreso per l’accaduto».
Mentre i suoi liberavano il primo sepolto, lei è corso alla ricerca degli altri.
«Per la verità ho visto che quattro di loro erano in qualche modo emersi, nel senso che erano caduti, ma non spariti sotto la neve. Invece non vedevo Paola. Ho ripreso l’Artva in mano, sono andato avanti, in diagonale, per un centinaio di metri, e, quando scattava il sesto minuto, mi è comparso il segnale che l’Artva di lei si trovava a 30 metri. Mi sono quindi avvicinato, metro dopo metro. Individuato il punto più vicino, ho affondato la sonda e a 70 centimetri di profondità ho intercettato lo zaino. Ho capito dove avrebbe potuto trovarsi la testa – a un metro - e sulla sinistra di quel punto ho scavato con le mani».
Che cosa ha trovato?
«I capelli. Sì, i capelli rossi di Paola. Ho subito realizzato che aveva il volto rivolto verso il basso, quindi in una posizione molto pericolosa. Sembrava morta, se devo essere sincero. Ho scavato nella neve, dalla parte destra della testa per scendere con la mano verso la bocca. Ho constatato che era chiusa, i denti stretti».
Come si procede, in questo caso?
«Ho fatto in modo di aprirle la bocca, conteneva neve. Le ho pulito gli occhi, il naso, le orecchie. Questione di secondi. Poi, istintivamente, le ho dato un tenero colpetto sulla nuca e l’ho sentita di nuovo respirare. Un colpo di tosse e ho capito che era viva. Dall’esplosione della valanga erano trascorsi otto minuti circa».
Una volta liberato il corpo come avete proceduto?
«Paola tremava, era in ipotermia. L’abbiamo avvolta in un telo termico, che uno scialpinista ha il dovere di portarsi nello zaino. La guida turca che ci accompagnava ha chiamato l’elicottero di soccorso, militare, arrivato dopo un’ora. Il ricovero in ospedale, per gli esami del caso è stato rassicurante e Paola ha trovato il coraggio di tornare in gruppo, per proseguire la spedizione».
Il suo prossimo “8 mila”?
«Il Nanga Parbat, fra due mesi. Sperando di non finire io sotto una valanga. Per la verità, in Himalaya ne ho visto una passarmi sulla testa. Ma se sono qui a testimoniare…».
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