Coppia afghana: «Finalmente la pace dopo 18 mesi di fuga»

Il Comune di Santo Stefano accoglie e dà una casa ad una coppia afghana vittima di un’odissea assurda. E lui ripaga offrendo il suo lavoro
SANTO STEFANO. «Il nostro cuore ha ritrovato la pace solo qui a Santo Stefano, un anno e mezzo dopo la fuga dall’Afghanistan». E per questo motivo hanno deciso di dare una mano alla comunità, mettendosi a disposizione per alcuni lavoretti di manutenzione.


«Ma questo è soltanto il primo grazie alla comunità che ci ha accolti a braccia aperte».


Mohammad Sultan, 34 anni, afghano di Talocan, nella provincia di Takhar, cerca un sorriso. Lo cerca quasi per dovere di ospitalità nei confronti di chi è venuto ad interessarsi della sua storia di rifugiato. Con lui la moglie Halima. Nella loro nuova (provvisoria) casa di via Udine, seduto vicino agli amici Alessandro e Marta, che lo hanno accolto e che lo aiutano ad inserirsi nella nuova realtà di Santo Stefano, e con accanto la giovane moglie Halima, di 22 anni, l’uomo cerca di spiegare i suoi sentimenti. Ma non è facile. Non per la lingua, parla infatti un inglese fluente, studiato a scuola ed in particolare all’università (è laureato in economia), ma per i sentimenti contrastanti che lo attraversano. Gratitudine per chi li ha accolti e li sta aiutando nella vita quotidiana, stupore per quanto di nuovo scoprono ogni giorno accanto a loro, dolore e commozione al pensiero delle famiglie che hanno lasciato al loro paese, incertezza sul futuro che appare nebuloso, ma che affrontano con coraggio, giorno dopo giorno, coltivando il sogno di un ritorno in un Paese finalmente pacificato. Domina su tutto il sorriso, qualche parola di italiano (la più ricorrente è grazie), il dovere dell’ospitalità perché chi entra nella loro nuova abitazione merita tutte le attenzioni che la loro cultura insegna. E, su tutte, una considerazione.


«Noi siamo musulmani, questa è la nostra religione, ma prima di tutto siamo uomini».


Mohammad è nato a Talocan (una cittadina a 866 metri di altezza, con 196. 000 abitanti) il 19 aprile 1983, la moglie Halima il 3 maggio 1995 nello stesso paese, come mostra il permesso di soggiorno che pongono sul tavolo ad indicare il loro stato di regolari. Un permesso rilasciato dalla questura il 26 aprile scorso e valido fino al 21 ottobre prossimo.


«Siamo fuggiti da Talocan nel settembre 2015, poco dopo esserci sposati; faceva già molto freddo», spiega Mohammad, «ho venduto il mio piccolo negozio di alimentari, l’attività di famiglia, perché vivere lì ormai era troppo pericoloso. Le famiglie al mattino, quando escono di casa per andare a scuola o al lavoro, si salutano come se non dovessero più rivedersi, perché questo è il rischio reale, giorno dopo giorno. In particolare le donne non possono fare una vita dignitosa, non possono studiare, lavorare, girare per strada. Abbiamo attraversato l’Uzbekistan, il Kazakistan, siamo passati dalla Russia e siamo arrivati in Norvegia», prosegue, «e lì siamo rimasti parecchi mesi. Il viaggio è stato fatto a piedi, un po’ in treno, qualche tratto in auto pagando il passaggio a chi ce lo dava».


Dormivate all’aperto o in qualche casa che vi ospitava a pagamento. Perché avete deciso di andare in Norvegia?


«Il mio obiettivo era la Gran Bretagna, perché parlo inglese e speravo di poter trovare riparo lì, in un paese multietnico, che ha una grande tradizione di accoglienza. Ma siamo rimasti bloccati un anno in Norvegia. Ed è stato un periodo davvero brutto. Tanto freddo, ho visto morire una donna anziana proprio per il freddo; eravamo ospitati in una ex prigione, chiusa per 20 anni e riaperta per dare un tetto ai profughi, a Bromfield, 200 km da Tromso. Un posto isolato, a 11 km dalla cittadina più vicina. Poi una notte, all’improvviso, è arrivata la polizia: ci hanno svegliati e fatti alzare, saranno state le 3 del mattino, e ci hanno detto che dovevamo rientrare in Russia. In realtà ci hanno trasferito in un altro campo al confine con la Russia, in attesa di rimpatriarci, così dicevano, in Afghanistan attraverso la Russia. Un nuovo campo, un vero inferno con tanti bambini provenienti dall’Afghanistan, dalla Siria e dall’Iraq. Un campo del tutto isolato, a cui era vietato l’accesso a qualsiasi estraneo, compresi i giornalisti, a Kirkenes. Lì ci hanno tenuti per quattro mesi e poi ci hanno trasferiti per altri nove mesi in un alloggio in una cittadina vicina alla Danimarca, Kristiasand. Sono stati mesi davvero brutti, in un paese freddo, inospitale, dove i colloqui con le autorità sono stati fatti per telefono, senza nessun aiuto vero, nessuna attenzione umana. Quindi abbiamo deciso di ripartire in cerca di fortuna».


Perché verso l’Italia?


«È stata la mia famiglia, mio padre in primis, a spingermi verso l’Italia, un Paese caldo, accogliente, mi diceva lui. Abbiamo attraversato Danimarca, Germania e Austria e siamo arrivati prima a Udine, poi a Belluno dove ci hanno identificati come rifugiati e, tramite la Cooperativa Cadore, qui a Santo Stefano».


Cosa ricordi di quel giorno?


«Era il 12 aprile. Quel giorno, dopo tanto tempo, il mio cuore ha ripreso a battere sereno...»


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