Crollò il tetto del palasport la condanna è definitiva
SAPPADA
Condanna a nove anni dopo il crollo. Per il collasso del palasport di Sappada, tra il 21 gennaio e il 9 febbraio 2009, la sentenza è ora definitiva per l’architetto Franco Laner: la Cassazione ha confermato i dieci mesi di reclusione e i 200 mila euro di risarcimento al Comune per disastro colposo stabiliti dalla Corte d’Appello di Venezia. Respinto il ricorso del professionista ampezzano, che nel 1982 progetto la struttura.
Nel giugno 2013, Laner era stato condannato a otto mesi con pena sospesa e 20 mila euro dal giudice bellunese Trentanovi. Gli erano state riconosciute le attenuanti generiche ed erano state escluse alcune parti del capo d’imputazione, che avevano spinto il pm Marcon a chiedere un anno e otto mesi e il Comune 100 mila euro di provvisionale con l’avvocato Mario.
Costato un miliardo di lire e costruito con criteri innovativi, sia dal punto di vista tecnico e sia estetico, il palasport era collassato sotto il peso della neve dopo 25 anni di vita. La sentenza di primo grado era stata impugnata da procura, difesa e parte civile e, sulla base di una perizia, il giudice d’appello ha inasprito la pena, portandola a dieci mesi e 200 mila euro, riconoscendo validi tutti i profili di colpa, anche quelli che non avevano avuto peso a Belluno: non solo era stato applicato un valore di carico del tutto insufficiente di 240 chili di neve per metro quadro, ma non era stata felice neanche la scelta del legno.
Difeso dal padovano Pavan, Laner è arrivato in Cassazione. La suprema corte ha dato ragione ai magistrati veneziani: «Le cause del crollo e le fase del decorso causale che condussero al collassamento della struttura sono state rappresentate con adeguata coerenza logica e linearità argomentativa. Le cause sono individuabili non soltanto nella erronea individuazione del coefficiente di carico di neve, ma in una serie di altri elementi, che contribuirono a rendere inidonea la tenuta struttura dell’edificio, affetto da vizi genetici di progettazione». —
Gigi Sosso
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