Da due secoli quei caffèscandiscono la nostra vita
Su quei tavolini si sono sedute generazioni di bellunesi
BELLUNO. Chissà come finirà. Di sicuro, Belluno rischia di restare per tutta l’estate senza due «biglietti da visita» importanti e con la piazza principale senza i suoi storici caffè. Ieri mattina i bellunesi si sono svegliati con un indefinibile senso di smarrimento. Come se all’improvviso fosse sparito un monumento cittadino. Quei due caffè hanno fatto compagnia a generazioni di bellunesi. Che lì dentro, o lì fuori attorno ai tavolini, hanno chiacchierato, spettegolato, trattato, amoreggiato. Hanno fatto politica, hanno giocato a carte o a biliardo, hanno ballato quando al Manin, al piano di sopra, c’era la sala per ricevimenti che si raggiungeva con una scaletta a chiocciola. Per due secoli Manin e Deon hanno scandito le ore dei bellunesi. Caffè della buona borghesia cittadina, ma con sfumature politiche diverse. I socialisti, per esempio, ad inizio secolo evitavano accuratamente il Manin, ritenuto un ambiente conservatore, mentre il Deon ha sempre avuto una fama più «progressista», addirittura «radicaleggiante».
Ora che entrambi sono chiusi, e chiusi resteranno per qualche tempo fino a quando il vecchio gestore Rodolfo Vittoria non troverà una soluzione oppure fino a quando non arriverà un nuovo gestore, i bellunesi si sentono un po’ orfani. E la città un po’ più povera. La storia la si può leggere in due pregevoli libri. Il primo è «Piazza dei Martiri-Campedel», a cura di Ivano Alfarè, Stefano De Vecchi e Ferruccio Vendramini, edito nel 1993 per iniziativa del Comune e dell’Isbrec (si veda in particolare il saggio di Giovanni Larese, «Cent’anni di botteghe»). Il secondo è «Turismo e tempo libero in una città alpina», di Ferruccio Vendramini, edito nel 2000 per la Comunità montana Bellunese. Quattro, scrive Larese, erano i locali storici ubicati al di fuori della vecchia cinta muraria: il Deon e il Manin in Campitello, il Commercio in piazza Vittorio Emanuele e il Vapore in piazzetta Santo Stefano. Il Commercio aprì nel 1866 come testimonia Antonio Maresio Bazolle nei suoi «Annali di Belluno» per iniziativa del «caffettiere» Luigi Pedante. Compare nella Guida del 1887 di Ottone Brentari come «il caffè principale della città». Il Vapore fu invece aperto a Palazzo Barpo nel 1860 da Giuseppe Bortotti, vicino al luogo di sosta delle diligenze. Quanto al Manin, Larese scrive: «Il vecchio Manin si presentava come un edificio a due piani con un elegante portico a colonne e cinque archi, preceduto da una profonda tettoia in ferro di stile liberty». Quella tettoia, ora scomparsa dalla piazza, è finita ad abbellire la vecchia villa Clizia a Mussoi.
Già a partire da metà Ottocento il Manin era diventato il principale luogo di ritrovo della borghesia bellunese dove «si parla di tutto, si sparla di tutti» (così scriveva”La Bolletta”, quindicinale unoristico diretto dalla Lega della Leva). Ma esisteva già agli inizi dell’Ottocento «come bottega del caffettiere Guernieri». All’epoca si chiamava Caffè Scopici, che nel 1842 la rivista veneziana «Il Gondoliere» definiva «il Pedrocchi di Belluno», caffè-simbolo come il Florian di piazza San Marco. Poi diventò Nazionale nel 1866 dopo l’unificazione del Veneto all’Italia, infine prese il nome attuale in omaggio al patriota veneziano Daniele Manin. L’edificio, di proprietà di Angelo Guernieri, giornalista ed editore, venne ereditato dalla famiglia Federici che cedette la parte dove c’era il caffè a Giuseppe Meneghini. Siamo nel 1882 e il caffè riapre ristrutturato. Nel 1892 lo prende in conduzione Giuseppe Valt, che lo ristruttura nuovamente ma, scrive Bazolle, «sotto l’aspetto della speculazione, il Valt la fece magrissima». Il restauro costò molto, forse troppo per le esigenze e le abitudini di Belluno. Il Bazolle nel 1893 cita i lavori di ingrandimento con queste parole: «Questo caffè non è proporzionato alle abitudini e alle risorse di Belluno».
Valt lavorava a Lucerna in Svizzera in lavori stradali, sicché nel 1894 stipulò un accordo per la gestione con Alessandro Menegazzi di San Martino di Lupari. Valt lasciò il locale al nipote Antonio Dell’Eva nel 1894, che lo affittò nel 1903 a due fratelli di Treviso, Renzo e Romolo Olivotti. Durante la prima guerra mondiale (lo documentano numerose fotografie d’epoca) divenne il ritrovo esclusivo degli ufficiali austroungarici con personale di lingua tedesca. Nonostante i restauri che nel corso del Novecento «colpirono» il caffè e l’edificio ora di proprietà della Cassa di Risparmio, l’assetto interno resistette fino almeno all’avvento della fòrmica, quando la fregola della modernità ebbe il sopravvento rendendolo più anonimo e privandolo della patina che la storia aveva depositato su divanetti e poltroncine. Nelle vecchie foto si distinguono bene gli arredi e la scala a chiocciola che saliva alla sala dove si giocava a carte e a biliardo, ben presenti nella memoria cittadina, così come i balli e i ricevimenti organizzati dal Circolo Manin. Nel corso dei decenni, poi, il Manin passò di mano più volte, con diversi gestori e proprietari. Quanto al Deon, la caffetteria esisteva prima del 1870, ed era stata fondata da Giuseppe Deon, discendente da una dinastia di fornai ambulanti.
Premiato all’esposizione provinciale di Treviso nel 1878, fu in seguito ampliato e restaurato. Anche qui, come al Manin, c’era la sala per giocare a carte. La famiglia Deon gestì il locale anche nel Novecento, diventando un altro punto di riferimento per la borghesia cittadina. La famiglia Deon ottenne riconoscimenti importanti: il premio fedeltà al lavoro nel 1956 della Camera di commercio, un altro all’«eleganza» in un concorso del 1957 indetto dall’Ept. Gli ultimi passaggi di proprietà vedono il Manin ceduto alla società La Genzianella Srl di Aurora Dalle Sasse di Lentiai e Aldo Ghedina di Cortina e poi, nel 1997, da questi alla Rovigest srl di Rodolfo Vittoria di Zoppè di Cadore. Adesso che altre nubi si addensano sui due storici caffè, ai bellunesi resta da sperare che anche questo temporale passi.
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