Dal municipio all’orto per far vivere la montagna

Luciana Furlanis è arrivata nove anni fa dal Veneziano con l’amica Elisabetta Ha guidato la comunità per un mandato e lanciato l’azienda agricola “Le Riede”

CIBIANA

Si può essere doppiamente custodi del territorio, chinandosi non solo sulla terra ma anche sulle carte che ricoprono la propria scrivania, per amministrare con coerenza, coordinare e cercare di far dialogare i rappresentanti del settore primario del proprio Comune.

Luciana Furlanis ha terminato il suo mandato da sindaca di Cibiana un anno fa, ma per tutta la durata del suo incarico ha cercato di mettere un pizzico della sua passione per l’agricoltura nella conduzione del piccolo paese incastonato ai piedi del monte Rite.

Originaria della provincia di Venezia e laureata in scienze ambientali, si è trasferita quassù nove anni fa grazie all’amica Elisabetta (socia in capitale) che ha una casa vacanze proprio a Cibiana.

Tutto è partito, un po’ come spesso capita, con un piccolo orto per l’autoconsumo. Poi cosa è successo?

«La passione è venuta con la pratica e il tempo. Inizialmente era un hobby casalingo, ma l’idea di farlo a tempo sempre più pieno mi ha fatto maturare una serie di riflessioni. Vivere a Cibiana vuol dire accettare la ricchezza di un altro stile di vita, nel senso bello del termine. Nella mia bilancia non c’è niente che pesa sul piatto degli aspetti negativi: anche se ho mantenuto un legame con il mio paese d’origine e i miei familiari, il silenzio, l’aria e le risorse ambientali che ci sono qui sono impagabili e non fanno venire voglia di negozi, locali o movida. Se solo l’inverno fosse meno lungo...».

Il nome dell’azienda si può dire frutto di un battesimo.

«Quando ci siamo trasferite qui i paesani ci chiamavano “le ragazze di Cibiana di Sotto” che in dialetto si dice “la rièdes”. Ma visto che noi siamo entrambe del Veneziano, abbiamo voluto personalizzarlo un po’. Elisabetta veniva qui in vacanza da trent’anni, mentre per me era tutto nuovo. Quando siamo arrivate mi hanno insegnato a usare la motosega, a fare il recinto del primo orto, ho trovato un sostegno e una mutualità che sono il valore aggiunto di queste piccole comunità, qualità che in città si incontra sempre più di rado».

Quando nasce l’azienda “Le Riede”?

«Ufficialmente nel 2014, che per me era l’ultimo anno in cui poter concorrere al bando europeo per il primo insediamento visto che avevo 39 anni. Mi sono un po’ buttata lo ammetto, con un po’ di sana incoscienza. Abbiamo voluto puntare subito sulla qualità della coltivazione recuperando sementi antiche, ad esempio il fagiolo di un’anziana del paese coltivato da generazioni, oppure varietà che si erano perse come la costa gialla o rossa anziché la classica bianca, o il ribes nero. Il tutto viene lavorato in un laboratorio di trasformazione, quindi si può dire che passa direttamente dalla terra al vasetto. Siamo partite con 2 mila metri quadri di terreni diffusi, ora ne coltivo più di un ettaro e mezzo».

Quali progetti in futuro?

«Vivere di agricoltura è difficile e ho sempre avuto bisogno di un altro lavoro per mantenermi e integrare quel che manca dalla brevità della stagione agricola. Al momento lavoro anche come coordinatrice alla residenza sanitaria assistita Marmarole di Pieve di Cadore. In futuro vorremmo ottenere la certificazione biologica anche se nella pratica è come se già ci fosse, visto che non ho mai utilizzato pesticidi o fertilizzanti chimici per forzare la natura. Nel frattempo abbiamo acquistato uno stabile da ristrutturare tramite un bando del Gal Alto Bellunese per farlo diventare punto vendita, angolo degustazione e agriturismo con tre o cinque camere, ci stiamo ancora ragionando. Al piano terra c’era la bottega storica della signora Maria. Ho anche preso due asini per fare onoturismo e ci piacerebbe chiedere anche la certificazione di fattoria didattica».

Quali sono stati i suoi contributi di sindaca?

«Ho cercato di attuare una legge regionale del 2012 per l’istituzione della Banca della terra, con il censimento non soltanto dei terreni abbandonati o non coltivati, ma anche degli stabili inutilizzati da poter riconvertire a stalle, fienili, punti vendita, agriturismi e quant’altro, questo tramite un progetto Interreg che ambivo a trasformare in un documento da portare nelle sedi regionali e statali di competenza per censire il patrimonio immobiliare fermo, in modo da scrivere una legge che ne permettesse la riconversione agevolata. A livello politico ci vorrebbe un allentamento delle pratiche di accesso ai fondi, insomma serve il cosiddetto “mus che tiri” e penso che il gruppo DDolomiti sarebbe in grado di rivestire anche questo ruolo di stimolo politico: se l’idea di partenza è buona, come in questo caso, e porta risvolti positivi dimostrabili, non incontrerà ostacoli. Mi è rimasto un rammarico: non essere riuscita a infondere il coraggio nelle persone, soprattutto giovani, che mi chiedevano rassicurazioni per far partire la loro attività agricola». —



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