Dba in Borsa: «Risultato eccezionale»
L’azienda nata in Comelico ha fatto il “tutto esaurito”. Francesco De Bettin: «Onestà e ricerca di qualità sono i nostri pregi»
BELLUNO. «No, una multinazionale tascabile come questa non sarebbe diventata tale se non fosse nata in un garage di Costalissoio».
Francesco De Bettin quasi si commuove pensando a quegli anni. Era il 1989 quando, insieme agli altri tre fratelli, si presentò allo sportello del Banco Ambrosiano di Santo Stefano per chiedere un prestito di 20 milioni di lire: oggi la Dba Group vale 40 milioni di euro, come certifica la Borsa dove sta approdando.
Se lo aspettava?
«Questo successo, nelle proporzioni date, assolutamente no. Ma sapevo che c’erano tutte le premesse: bravi i miei fratelli, bravi tutti i collaboratori».
Un successone lo sbarco in borsa. Avete fatto il tutto esaurito. Azioni per 20 milioni, richieste per 33. E giovedì prossimo il debutto.
«Sono risultati eccezionali. Ma, lo ripeto, se non avessimo il contesto di Costalissoio e del Comelico alle spalle, oggi probabilmente non saremmo qui a festeggiare».
Questo contesto come lo decifra?
«I comeliani, i cadorini, i bellunesi, sono persone tenaci, che non hanno paura di sacrificarsi».
L’ascesa di Dba non è stata un successo progressivo. A proposito di sacrifici…
«A proposito di sacrifici mi cattura ancora la commozione ricordando quel 2013 di crisi in cui la società si trovò a fare i conti con la cassa integrazione e la mobilità. Noi fratelli decidemmo insieme che non potevamo riservare questa umiliazione a chi ci dava tutto, i nostri lavoratori. I quali, infatti, decisero di ridursi lo stipendio del 20-25%. E noi fratelli decidemmo, nel contempo, di rinunciare alla remunerazione. Ci siamo mangiati, quella volta, 2 milioni di euro. Bene, un anno dopo riuscimmo a guadagnare 1 milione e 780 mila euro, che abbiamo redistribuito fra tutti. Da lì andammo avanti col vento in poppa».
Oggi quanti siete?
«Abbiamo 482 collaboratori: 20 in Comelico, 110 a Villorba, gli altri sparsi nel mondo».
Perché la chiamano “Franz”?
«Francesco è troppo umbro. Quassù, a Costalissoio, mi chiamano da sempre Franz. La nostra famiglia è molto unita. Se noi quattro fratelli non fossimo praticamente un tutt’uno, oggi non saremmo così soddisfatti. Due siamo ingegneri, due sono architetti. Il successo del gruppo dipende dall’affiatamento, anche valoriale, che c’è tra noi. E con i collaboratori».
Ritenete anche di essere stati fortunati?
«Fortunati sì, ma nel saper ingaggiare i colleghi del nostro stesso stampo».
E qual è il vostro stampo?
«Il nostro pregio è l’onestà, è la ricerca della qualità. In questo siamo talebani, non ammettiamo deroghe. Noi pratichiamo un comandamento, il settimo, quello di non prendere o tenere ingiustamente i beni del prossimo e di non arrecargli danno».
È un comandamento che prescrive la giustizia e la carità nella gestione dei beni materiali.
«E nel rispetto di questo comandamento noi siamo appunto talebani. Ci è capitato solo un collaboratore che ha approfittato e lo abbiamo licenziato».
Fin qui i pregi. E i difetti?
«La nostra dabbenaggine intellettuale che talvolta ci porta ad essere sprovveduti».
Sprovveduti o ingenui?
«
No, ingenui no. Se diciamo che pratichiamo l’onestà, vogliamo andare fino in fondo. E questo atteggiamento non sempre ci aiuta».
Apparentemente, perché il successo borsistico di queste ore vi sta oltremodo premiando, evidentemente anche nelle vostre virtù migliori, a cominciare appunto dall’onestà.
«Noi non vogliamo cedere neanche un euro della nostra azienda. I soldi che raccogliamo li reinvestiamo. Il nostro azionista, ossia la Cassa depositi e prestiti, che uscirà il 14 dicembre, ha moltiplicato di 2,6 volte l’investimento fatto, pari ad un aumento del 16%. La nostra onestà significa anche il rispetto di tutti gli impegni».
Ma da Costalissoio, com’è possibile spaziare da una parte all’altra del mondo gestendo un’impresa di ingegneria così sofisticata?
«Con la cocciutaggine tipica dei comeliani e dei cadorini. Quella stessa dimostrata da generazioni di nostri emigranti. Siamo cocciuti anche nella solidarietà, nella condivisione: al momento del bisogno, al di là di ogni contrapposizione, siamo capaci di unire le forze. Lo si veda, un esempio fra i tanti, con la vicenda di Coltrondo».
Qual è il problema del Comelico?
«Mancano le pari opportunità. Da una parte e dall’altra abbiamo due autonomie. Non sono fra quelli che le vogliono cancellare. Sostengo però che il Comelico o, meglio ancora, l’intera provincia, deve essere riconosciuta nella sua specificità».
Specificità o autonomia?
«Autonoma deve essere la Regione. Dentro la regione il Bellunese deve poter contare su specifici trattamenti».
Lei, quindi, ha votato sì ai recenti referendum?
«Ero all’estero. Come Zaia dico che il Veneto deve avere pari opportunità con il Trentino Alto Adige ed il Friuli Venezia Giulia. Non ho mai votato Lega, ma riconosco al presidente Zaia grandi doti: di intelligenza, di onestà, di capacità, di interpretazione della volontà popolare. E di guida. Mai, infatti, abbiamo sentito Zaia criticare le prerogative delle vicine regioni».
Sul treno delle Dolomiti, però, lei ha una visione diversa.
«In parte sì. Perché di fatto ci vogliono scippare il Comelico. Un treno turistico, come questo, dovrebbe entrare direttamente in Europa, attraverso le nostre montagne, invece rischia di marginalizzarci».
Se fosse sappadino, oggi da che parte starebbe?
«Considero l’autonomia solo del Veneto. Un Veneto autonomo in un’Italia federale. E il recente referendum ha dimostrato finalmente che noi Veneti contiamo più dei Lumbard. Tutto il resto sono fughe in avanti che non risolvono i problemi alla radice. L’autodeterminazione è un valore, ma non può essere esasperata. La penso come De Menech e come un tempo la pensava Paniz. Loro hanno provato a rivendicare la specificità, ma si sa in politica contano i voti».
Lei conosce bene anche Renzi e Lotti…
«Li stimo e li rispetto. Non comprendo questa campagna di denigrazione personale. Sa, io sono un cristiano e credo nel rispetto della persona».
A chi fa riferimento in campo cattolico?
«Il mio più grande papa è stato Paolo VI. Aveva il coraggio perfino d’interrogare Dio; lo ricordiamo tutti nello strazio per la morte di Aldo Moro».
Era il Papa del dubbio.
«Senza porsi dubbi non si va avanti con successo. Mi lasci dire, però, che il Papa che prego ogni giorno come un santo è Luciani. Ha raccolto i dubbi del predecessore e ha incominciato a costruire la speranza, quella che oggi papa Bergoglio sta trasformando in un rinnovamento irreversibile».
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