Del Vesco, 32 anni da volontario Cnsas. «Che paura quella volta che fui travolto da una valanga»

Il 77enne bellunese è in forza al Soccorso alpino con i suoi cani ed è stato nominato socio emerito: durante un intervento valanghivo sulle Tofane, finì sotto a una slavina: «Andai su e giù per trenta metri, restando fortunatamente quasi sempre a galla, poi vidi sulla mia testa il cavo pronto a riportarmi sull’elicottero»

Stefano Vietina

BELLUNO. La voglia di impegnarsi nelle attività di soccorso in montagna gli è nata quando, nel 1963, ha visto le tantissime persone che si sono date da fare dopo la tragedia del Vajont, in cui lui ha perso la vita l’80% della sua famiglia. La passione per i cani l’ha sempre coltivata, anche perché non ha avuto figli.

Giovanni Del Vesco, classe 1944, di esperienze nella sua vita ne ha fatte tante, ma anche adesso quelle che ricorda con maggiore emozione sono legate ai soccorsi che ha fatto in montagna con i suoi quattro cani. «E devo dire grazie a mia moglie Graziella che mi ha sempre sostenuto, aspettato, confortato. Perché quando ti impegni nel Soccorso alpino non esistono sabati o domeniche, né ferie: la chiamata ti può arrivare ad ogni ora del giorno e della notte, e devi essere pronto».

Oltre 30 anni nel Soccorso alpino di Longarone, come soccorritore e conduttore di unità cinofile, sabato scorso Giovanni Del Vesco, ha ricevuto a 77 anni l’attestato di socio emerito, tra gli applausi dei capi e vice-capistazione, riuniti nell’assemblea regionale; un riconoscimento consegnato dal presidente del Soccorso alpino e speleologico Veneto Rodolfo Selenati. Sempre presente durante gli interventi di ricerca assieme ai suoi quattro cani, prima Asso, poi Driù e Dock e oggi Honly, brevettati due con il Cnsas e due con l’Alpenverein, sia in valanga che di superficie, Giovanni ha portato il suo continuo apporto, anche come figurante durante gli addestramenti. È pensionato ed ha lavorato a lungo nel settore della ristorazione.

«Dal 1964», ricorda Del Vesco, «sono andato in Germania a lavorare in gelaterie e pizzerie: Wuppertal, Bonn, Berlino. A Colonia sono rimasto 9 anni come direttore di una gelateria con 23 dipendenti. Poi sono tornato in Italia nel 1981 perché mio padre aveva un negozio di alimentari al mio paese, Codissago, andava in pensione e ci teneva che continuassi io l’attività».

Lì è rimasto fino al 1992 per poi prendere in gestione il rifugio Col Visentin, fino al 2014. «È stato un periodo stupendo: il rifugio rappresenta esattamente il tipo di vita che ho sempre sognato, lì ho trovato la pace interiore».

Nel frattempo nasce l’impegno nel Soccorso Alpino a partire dal 1989, e prima nella protezione civile dell’Ana a Longarone. «Volevo rendermi utile ed ho sposato la mia passione per i cani a quella per i soccorsi. Io dalla strage del Vajont mi sono salvato per puro caso. Quella domenica sera volevo andare a Longarone a vedere una partita di calcio alla televisione, ma i miei genitori si opposero. Loro nel pomeriggio avevano riportato al paese di Vajont, 120 abitanti, mia nonna e mia zia, che morirono dopo poche ore. Vajont, proprio sotto la diga, fu il primo paese a scomparire, la forza dell’acqua scavò una buca di 80 metri e distrusse tutto».

Di che razza sono i suoi cani?

«Ho avuto tutti pastori tedeschi e, lo sottolineo, sono sempre stati proprio miei, acquistati da me. Così funziona con il Soccorso alpino, che poi ci mette a disposizione i corsi per addestrarlo».

Ricorda il primo soccorso fatto?

«Difficile, sono passati tanti anni. Ho ben impresso nella memoria, però, quello che abbiamo condotto una dozzina di anni fa sulle Tofane, quando anche io ho rischiato di rimanere sotto un valanga».

Cosa accadde?

«Ero di servizio al 118, all’elicottero, quando ci avvisarono di una valanga sulla Forcella Rossa. Partiamo, l’elicottero ci cala, io ed il mio cane Dock, e rimane in aria a controllare la situazione. Dopo poco però parte una seconda valanga di superficie, forse spostata dalle pale dell’elicottero: per trenta metri sono andato su e giù, restando fortunatamente quasi sempre a galla, poi sono riuscito a rimettermi in piedi ed ho visto sulla mia testa il cavo pronto a riportarmi sull’elicottero, ma non trovavo Dock. Lui aveva sentito prima di me l’arrivo della valanga e si era nascosto dietro un sasso. I cani hanno una sensibilità particolare, percepiscono in anticipo i movimenti della terra, lavorano con l’olfatto».

Come si addestra un cane da ricerca?

«Ci vogliono ore ed ore e poi ogni giorno bisogna provare qualcosa. Noi facciamo anche da figuranti, ci nascondiamo: il cane che ci ritrova ha un premio, un salsicciotto di stoffa con cui giochiamo insieme».

Ogni cane risponde solo al suo padrone?

«No, il mio, una volta che gli metto la pettorina ed il campanellino, sa che andiamo alla ricerca, e risponde anche ai colleghi».

Quanti siete in provincia di Belluno?

«Dodici e ci troviamo ogni due settimane per il breafing».

Le soddisfazioni maggiori?

«Naturalmente dare una mano per salvare vite umane; ma anche vedere come i nostri cani reagiscono all’addestramento e rispondono. Sanno che quando si parte si va alla ricerca e bisogna dare il massimo».

Ma come è cambiato in questi anni il vostro lavoro?

«È molto più difficile perché ci sono più sconsiderati che si avventurano e rischiano la vita: non sono attrezzati, non hanno esperienza, non capiscono le difficoltà, non hanno rispetto per la montagna. Noi cerchiamo di fare informazione, di far capire che non è sufficiente la tecnologia per non correre rischi. Non basta, insomma, avere un telefonino ed il dott. Google, bisogna usare la testa».

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