Dodicenne annegò nel lago: responsabilità da chiarire a diciassette anni dai fatti
Emanuele morì nel lago di Santa Croce. Era il 17 luglio 2003 e, diciassette anni dopo, le responsabilità per il suo annegamento non sono ancora del tutto chiare. La Cassazione ha rinviato alla Corte d’Appello di Roma, affinché stabilisca se anche l’allora 12enne Emanuele Costa abbia delle colpe. Se cioè «come persona media sia stato incauto nella decisione di fare il bagno in uno specchio d’acqua notoriamente pericoloso». La famiglia, che è tutelata dall’avvocato coneglianese Alessandra Gracis, deve aspettare ancora.
Nella sentenza di primo grado della causa civile del 2010, il tribunale di Roma aveva condannato al pagamento di un importante risarcimento danni sia Enel Produzione Spa che il Comune di Farra d’Alpago con l’allora sindaco Attilio Dal Paos, ritenendoli del tutto colpevoli dell’accaduto. Ma in Appello la magistratura ha suddiviso le colpe, coinvolgendo al 20 per cento la madre Maria Vittoria, perché non avrebbe vigilato a dovere e riducendo di conseguenza la somma. Nuovo ricorso, stavolta dei Costa e giovedì il pronunciamento della suprema corte.
L’inchiesta penale per l’ipotesi di reato di omicidio colposo era stata archiviata dal gip del tribunale di Belluno, su richiesta del pm Gallego che aveva ravvisato soltanto fatti di natura accidentale, dai quali non emergevano responsabilità penali. L’eventuale cartello di divieto di balneazione da parte del primo cittadino non avrebbe potuto impedire la morte del giovane alpagoto. La causa civile era stata presentata nel 2006 al Tribunale di Treviso, che però aveva dichiarato la propria incompetenza, in favore di Roma o Massa.
Secondo la ricostruzione dei carabinieri e della Forestale, verso le 14 Emanuele era arrivato sulla spiaggia di Farra, insieme alla madre e a un amico. Mentre la donna si è distesa per prendere il sole e ha cominciato a conversare con dei conoscenti, i due ragazzi si sono allontanati, per fare una passeggiata lungo il sentiero che costeggia il lago, tornando poco dopo e avvisandola che avrebbero fatto il bagno, tanto sapevano nuotare. Non c’era nemmeno molta acqua, per via dei prelievi da parte di Enel. I due sono scesi lungo il bagnasciuga, entrando fino al bacino nelle acque torbide per la presenza di detriti e fanghiglia. Entrambi sono sprofondati in una prima buca, riuscendo però a risalire e cercando di tornare verso riva. Lungo il tragitto, sono finiti in un altro fosso e qui Emanuele ha tentato di aggrapparsi alla testa dell’amico, perdendo però la presa e annegando. Il suo cadavere sarà ritrovato dai carabinieri verso le 16.35 in una buca alla profondità di circa due metri e alla distanza di venti dalla riva, impigliato tra i rami.
Nei giorni precedenti il livello dell’acqua era più alto e non c’erano segnali con il divieto di balneazione. Solo due giorni dopo, il Comune di Farra ha emanato un’ordinanza di divieto. Mentre per il tribunale la madre non aveva alcuna colpa in termini di omessa custodia, nonostante le censure delle altre due parti in causa, per la Corte d’Appello era, invece, responsabile almeno in parte.
Quanto al figlio, per la Cassazione non c’è dubbio che abbia vissuto «un’esperienza terrificante, nel momento il cui aveva cominciato a sprofondare sott’acqua, cercando inutilmente di aggrapparsi al suo amico e abbia avuto la lucida percezione dell’approssimarsi della morte». Ma ha anche lui delle responsabilità? «Noi diciamo di no» sottolinea Gracis «e pensiamo che la Corte d’Appello possa darcene atto». —
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