Esce "Il canto delle manere", il nuovo libro di Mauro Corona

Romanzo di 400 pagine per lo scrittore di Erto. Che inizia dove finisce «Neve»
Mauro Corona
Mauro Corona
Esce oggi nelle librerie il nuovo romanzo di Mauro Corona. Sapientemente costruito (il finale è già tutto nell’esordio come il destino di ciascuno nella nascita), Il canto delle manére, narra in poco più di quattrocento pagine la storia di Santo della Val Martin in fuga dal proprio passato, ovvero da se stesso e dalla sorte che lo ha voluto in età giovanile feroce omicida, ma anche l’epopea dei boscaioli di Erto che facevano risuonare i boschi dei colpi cadenzati e precisi delle loro scuri. Nella prima parte del racconto, che culmina nell’uccisione del rivale in amore, caratterizzato dal ritmo lento dei primi anni di vita del protagonista, quelli che soli si accordano ai tempi della natura, assistiamo all’educazione-iniziazione di Santo che, come il padre, farà il boscaiolo e come lui sarà alla fine “preso” da un albero.


Conteso dal nonno saggio, che gli fa da padre e tenta di limarne le intemperanze e di insegnargli le «sapienze necessarie alla vita a venire», e da Augusto, che gli è maestro e lo incita al di più e meglio, alla temerarietà che suscita timore e rispetto, Santo cresce col gusto della sfida e la presunzione di eccellere sopra ogni altro. Solo la deda, che lo avvilisce sbattendogli davanti la sua bruttezza, gli farà provare la prima delle tante umiliazioni della vita, quelle che si sentono come frustate nell’anima e che aprono ferite inguaribili. Quelle che condizionano per sempre la considerazione degli altri, le relazioni, gli affetti.


Carattere e destino, come suggerirà Hofmannsthal, sono dunque i binari su cui muove l’esistenza di Santo, mentre il bosco è lo spazio al tempo stesso naturale, magico e simbolico, in cui essa si aggira come dentro un labirinto. «È un bosco anche la vita», gli dice il nonno Domenico, «da curare, tagliare, pulire e proteggere, se no va in malora». E invece, il bosco conteso, strappato di forza o d’astuzia, spartito tra Agusto e Tomaso, viene saccheggiato con la furia dell’insana competizione, dei dispetti reciproci che non tardano a trasformarsi in violenze brute, mentre le manére impongono altri ritmi, quelli frenetici del guadagno. È così che uomini e donne si abbatteranno l’un l’altro come alberi. Devastare il bosco è dunque devastare la vita. Tagliare a dismisura significa prosciugare a poco a poco la linfa della propria esistenza. Ecco allora che a metà del racconto e del libro, Santo decide di fuggire dal paese per ricrearsela, quella linfa, fuori, lontano, in Austria, e poi in Svizzera e in Francia e ancora in Austria. Fugge perché la rivalità assassina tra i boscaioli, che si è ribaltata nella storia amorosa di Santo e Paula Francesca, ha sortito uguale esito: la morte violenta del giovane Jacon che gli ha portato via la donna. Anche in questo romanzo le morti atroci, come gli amori, teneri o bestiali che siano, sono descritti nel dettaglio eppure con quella sobrietà che nulla concede al patetico, perché proprio nello strazio dei corpi, appesi, sventrati, battuti, violati, nella violenza fisica e nel dolore del corpo Corona rinviene e mostra la miseria umana, la sventura, il nulla della vita.


Nella seconda parte del romanzo, riavutosi dall’iniziale spaesamento (notevole è qui la capacità dell’autore di descrivere i grovigli dell’animo dell’emigrante o dell’esule), imparata la lingua, Santo ricomincia a vivere, ma il ricordo del male passato, quello che rende il presente un inferno da attraversare quotidianamente, non lo abbandona. «Quella è la vera condanna, sapere che indietro non torni. Allora ti viene i ricordi dei bei tempi, quando tutto era a posto. Questi ricordi ti fa rabbia e dolore finché vivi». E poi tutto il mondo è paese: «fatica, patimenti e musi da faine». Unico lenimento il ritrovare dei compaesani, «con addosso l’odore di Erto», e i boschi dell’impero, e una nuova illusione: l’amore di Giovanna. A differenza di quello giovanile, trepido, per Paula Francesca che inizia e finisce con il volo sulla teleferica, l’amore per Giovanna è già rassegnato, senza aspettative, consolatorio della fatica del vivere, ciononostante, e forse per questo, vero, perciò duraturo pur nel tradimento e nella separazione degli amanti.


Via via si farà avanti in Santo la consapevolezza di essere condannato a volere e disvolere la stessa cosa, ad amarla e odiarla in egual misura. Sarà l’arte a fargli tremare l’anima, a ricomporla in parte, ché anche quella rude del boscaiolo si scuote davanti alle cose belle. E poi l’incontro e la frequentazione delle lettere, di Hofmannsthal in particolare, e in Svizzera di Walser, e le prime scalate.


Gli anni intanto scorrono inesorabili e anche il destino sembra volgere al compimento quando alla fine della seconda guerra, Santo, che ha fatto i soldi ed è stanco della «vita agra», decide di tornare, come se non avesse aspettato altro, per tutti quegli anni, trentatré, che di tornare. Come se l’andare tra Austria e Svizzera e ancora Austria e Francia fosse stato un «balegar», un andare avanti e indietro nel medesimo posto, in attesa del ritorno. E il ritorno è un altro spaesamento: ha la trepidazione dell’andata, ma non per l’ignoto, bensì per il conosciuto che si teme di non riconoscere o che non ti riconosca, ma soprattutto è senza pace. L’ultima sfida, alla legge del bosco, Santo la perderà. Nella sua presunzione non terrà conto di un elemento determinante (come Agusto, «che aveva messo in conto tutti i posti del mondo dove poteva venir colpito, fuorchè la latrina») e la rovina sarà inevitabile perché già scritta. Allora saprà che è vero come proclamava Agusto che «le robe storte si possono drizzare e fare andare nel verso giusto» e che «sono le robe storte della vita che non drizzi quando vuoi. Quelle è solo il tempo che le drizza». Solo che l’enorme faggio, che da anni dormiva chinato sulla val da Diach, non ha voluto essere drizzato, ha drizzato, invece, la vita storta di Santo.


Si chiude così la storia di Santo e quella della prima metà della vita di Mauro Corona. Sì, perché Santo è anche Mauro. Il quale è stato capace, forse perché schermato dal suo personaggio, a raccontarsi senza inganni ed autoinganni, a denunciare, senza pretese giustificatorie o assolutorie, sentire e agire contraddittori e non di rado di-sperati. L’arte e la letteratura, di cui qui si parla per bocca di alcuni dei suoi autori più amati, quelli absburgici della svolta del secolo, della Finis Austriae come fine del mondo, diventeranno gli ingredienti dell’altra metà della sua vita, laddove, come egli stesso ha più volte affermato, la bellezza è risarcimento e la scrittura terapia: al dolore, alle cose storte che il tempo non ha ancora drizzato.

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