Deportazioni e lavoro coatto: 10 mila bellunesi nei lager nazisti
Enrico Bacchetti e Adriana Lotto hanno effettuato studi sul tema:
«Furono perseguitati civili, politici, partigiani e catturati 4.500 militari»
Quando si parla di deportati bellunesi nei campi di concentramento, il pensiero corre agli ebrei e al loro sterminio. Ma per la provincia di Belluno non è stato così. Nel nostro territorio c’era solo un piccolissimo nucleo di ebrei locali, indicati come “ebrei discriminati”, che si salvarono dalla morte o perché i loro genitori si erano distinti nella Prima guerra mondiale, o perché avevano sposato persone non ebree: sono una ventina, non di più. Un po’ più consistente il gruppo degli ebrei stranieri, 181, arrivati qui nel 1941: quelli catturati dopo l’8 settembre, 52, sono finiti e morti nei campi di sterminio.
Ma c’è un enorme numero di bellunesi, che sfiora i novemila o forse arriva addirittura a diecimila unità, che finì in uno dei tanti lager di cui era disseminata l’Europa sotto il gioco nazista: in Italia tra gli altri Fossoli, Bolzano e San Sabba, altrove i nomi famigerati di Auschwitz, Mauthausen, Dachau, Flossenburg, Buchenwald, solo per citare i più noti. C’erano strutture simili anche in tutti i Paesi alleati della Germania, come Romania, Ungheria, Croazia, Francia.
«I campi non erano tutti uguali», spiega la storica e ricercatrice Adriana Lotto, «ci sono quelli di concentramento, dove vengono avviate le persone che poi saranno destinate ad altri campi; ci sono quelli di sterminio, dove vengono uccisi gli ebrei, i rom e sinti. Ma ci sono anche i campi di lavoro, quelli di internamento per i militari, quelli di rieducazione (a cui vengono destinati molti testimoni di Geova tedeschi), quelli riservati agli zingari. Non tutti i prigionieri finiscono nelle camere a gas, dipende molto dalle necessità di manodopera per l’industria e l’edilizia tedesca».
Chi compone questo enorme numero di bellunesi finiti in Germania?
«Prima di tutto ci sono i perseguitati politici, i partigiani, i civili, che secondo i miei calcoli sono tra 1600 e i 1800. Alcuni finiscono in campi di concentramento, altri in quelli di lavoro: sembra essere una logica economica a guidare le scelte. C’è il caso, ad esempio, dei sette uomini che vengono arrestati ad Agordo, hanno tra i 19 e i 27 anni: erano renitenti ai bandi di arruolamento dei tedeschi e vivevano nascosti. Ma poi vennero avvertiti che o si consegnavano o le loro case sarebbero state bruciate. E così finirono in un campo di lavoro tra Salisburgo e Monaco. Sei di loro tentarono la fuga ma vennero ripresi: cinque non uscirono vivi da Flossenburg, morirono nel giro di pochi mesi».
Come venirono catturati nel Bellunese questi 1600-1800 giovani?
«Soprattutto con i rastrellamenti», spiega Enrico Bacchetti, direttore dell’Isbrec. «Nelle mille schede che ho raccolto, il 25 per cento sono del Comelico, sono oppositori politici o partigiani o persone denunciate, o parenti di partigiani; 23 per cento sono Feltrini, il 32 per cento della Valbelluna e dell’Alpago, il 12 per cento Cadorini, il 7 per cento Agordini. Un centinaio sono le donne: Albertina Brogliati è un esempio, venne presa insieme alla sorella, alla suocera e alla madre. Erano parenti di Francesco Pesce, comandante della Nanetti. Poi ci sono gli ostaggi, che vengono presi al posto delle persone che i tedeschi cercano, è il caso di Tullio Bettiol: l’uomo che dovevano arrestare era suo padre».
Chi sono gli altri deportati?
«Ci sono i militari», prosegue Adriana Lotto, «che sono circa 4.500: si badi bene, sono coloro che dopo la guerra si sono iscritti all’Anei, associazione di ex internati, il cui archivio si trova nella sede dell’Isbrec. Ma ci possono essere ex militari che non lo hanno fatto. I militari bellunesi vengono catturati ovunque, sui vari fronti di guerra. Mi sono occupata solo di coloro che finiscono in Germania, ma poi ci sono soldati bellunesi prigionieri degli alleati, in India, in Sudafrica, in America. Alcuni vengono presi nei Balcani, altri al confine con la Francia: mio zio Olivo Marco Lotto era un carrista, appena tornato a Bologna dopo una licenza, viene arrestato il 9 settembre 1943, muore in Germania nel marzo del 1944 e ora è sepolto a Francoforte dove ci sono le tombe di 5000 italiani, militari e civili. Far tornare queste salme in Italia è difficile e soprattutto costoso, io ho portato sulla sua tomba un sacchetto di terra bellunese».
Qual è il destino dei militari internati?
«Vengono mandati a lavorare, fuori da qualsiasi convenzione, ma solo i soldati semplici ovviamente. La Repubblica di Salò si inventa anche un servizio di assistenza per far arrivare loro cibo e generi di conforto dall’Italia, servizio mai partito. Per accordi con Mussolini, i militari diventano lavoratori civili, vengono tolti i reticolati e possono muoversi, ma fuggire è difficile se non impossibile. Chi non muore sotto le bombe alleate o per gli stenti riuscirà a tornare a casa».
Oltre ai civili e ai militari, chi c’è ancora tra gli ottomila – diecimila deportati?
«Ci sono i lavoratori coatti, che per quanto riguardano il Bellunese sono circa 2500. In Germania tra il 1938 e il 1943 andarono 400 mila lavoratori, secondo gli accordi tra Mussolini e Hitler, braccia in cambio di carbone. Dopo l’8 settembre centomila sono costretti a restare lì, a questi si aggiungono altri centomila italiani presi dopo l’armistizio, alcuni sono volontari ma la gran parte sono precettati o rastrellati. Sono le braccia per l’economia tedesca, economia di guerra portata avanti da persone reclutate in questo modo, mentre i tedeschi erano al fronte a combattere». «Il prezzo pagato dal nostro territorio al tema della deportazione e del lavoro coatto imposto dai nazisti con la complicità dei fascisti è pesantissimo», conclude Bacchetti.
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