Giovanni Paolo II e il Bellunese: un rapporto da subito speciale

LORENZAGO
«Penso anche, o fratelli, ai problemi sociali della vostra regione, la quale, per la sua stessa conformazione, dispone di scarse risorse e non da oggi conosce, purtroppo, le privazioni ed i sacrifici della povertà».
Così parlò Karol Wojtyla, il 26 agosto 1979, quindi ben prima delle sue vacanze a Lorenzago, agli 80 mila dello stadio di calcio di Belluno.
Era reduce, l’allora pontefice (di cui oggi si ricordano i 100 anni dalla nascita), dalla prima visita ufficiale in Italia, ossia a Canale d’Agordo, dov’era andato per rendere omaggio al predecessore, e sulla Marmolada. Wojtyla ricordò poi la guerra. E aggiunse: «Se questo flagello sembra ora fortunatamente lontano, permangono però altre realtà dolorose, quali la povertà del suolo, le calamità di vario genere; e ricordo solo il disastro del Vaiont e il terremoto che colpì alcuni anni fa il territorio delle buone popolazioni del Friuli. Senza dimenticare l’incombente minaccia della disoccupazione o l’incertezza del posto di lavoro, la perdurante e sempre triste necessità dell’emigrazione, sia essa permanente o stagionale».
Chi accompagnò Wojtyla, in quelle circostanze e poi nel soggiorno di Lorenzago, è stato monsignor Giorgio Lise, allora segretario del vescovo Maffeo Ducoli.
L’aneddotistica si spreca per i sei soggiorni a Lorenzago, ma San Giovanni Paolo II va soprattutto ricordato per le sue raccomandazioni ai bellunesi nelle sue ripetute visite, anche a Col Cumano, dove incontrò 15 mila giovani, e poi nel cimitero di Fortogna.
«La custodia del Creato è stato uno dei suoi insegnamenti più ripetuti. Si direbbe un “ambientalista ante litteram”. Quando passeggiava sui nostri sentieri, Wojtyla si fermava spesso in contemplazione, dell’acqua, del vento. Il rumore del vento lo affascinava. E poi la tematica sociale».
Un ambientalista ante litteram, lei lo definisce...
«Ripeto, non possiamo fermarci all’anedottistica, alla memoria dei soggiorni e delle visite. Dobbiamo ricordare ciò che San Wojtyla ci disse allora. La conservazione e lo sviluppo del patrimonio boschivo in qualsiasi zona è fondamentale per il mantenimento e la ricomposizione degli equilibri naturali indispensabili alla vita, spiegò, ad esempio, il Papa in quegli anni. “Ciò va affermato ancora di più oggi – disse in Val Visdende – mentre ci accorgiamo di quanto sia urgente realizzare una decisa inversione di tendenza in tutti quei comportamenti che portano a preoccupanti forme di inquinamento”».
C’è chi vorrebbe scordarlo, ma proprio a Belluno Wojtyla ricordò il dovere dell’accoglienza degli immigrati, sulla scorta dell’esperienza di emigrazione di tanti bellunesi.
«Sì, mai nessuno, prima di allora, sollevò con parole così chiare il tema dell’ospitalità. Un’accoglienza, ovviamente, ragionata».
Ma ci sveli un segreto. A monsignor Ducoli come venne l’idea delle prime vacanze di un Papa? E proprio in Cadore?
«Ducoli conosceva bene l’allora cardinale Casaroli, Segretario di Stato. Era l’estate 1986. Lo incontrò a Roma e gli disse: vedo il Papa molto stanco, dovrebbe riposarsi. Casaroli di rimando: per riposarsi dovrebbe andare in un bosco, stendersi a terra e chinare il capo su un tronco. Pochi giorni dopo eravamo a Costalta e ci trovammo ad ammirare un tramonto. “È così bello che dovrebbe vederlo anche il Papa”, mi disse Ducoli. La mattina dopo eravamo a Lorenzago, per chiedere a monsignor Mistrorigo, allora vescovo di Treviso, se avrebbe concesso la sua casetta alpina nel caso avessimo invitato Wojtyla. Mistrorigo si sorprese, accettò, ma ad una condizione: che organizzassimo tutto noi».
L’estate successiva Wojtyla era al castello Mirabello. Com’è la storia dei suoi calzini da Papa?
«Nel 1993 c’era un concerto inaugurale alla Madonna della Difesa. Ducoli, per non disturbare il Papa, non lo invitò. C’era invece il suo segretario che, prima del concerto, mi inviò al Mirabello per portare giù anche Wojtyla. Il Papa accetto l’invito, arrivò, si sedette nel presbiterio. Io gli stavo vicino. Ero in clergyman e avevo i calzini bianchi per non essere tutto in nero. In una pausa del concerto, lui si alzò la veste e comparsero i suoi calzini bianchi. Con l’indice della mano ed un sorriso mi indicò che lo stavo copiando...». —
Francesco Dal Mas
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi