Gli attimi dopo la tragedia «Una valle piena di sabbia»
LONGARONE. Angelo Salamon è salito a Longarone da Pordenone, con tutta la famiglia. Nipoti compresi. Ha in testa il cappello dell’alpino, in mano l’attestato di partecipazione appena ricevuto e, dentro, tanta commozione. «Facevo parte della Compagnia di Comando a Tai di Cadore», racconta. «Arrivammo a Longarone l’11 ottobre e vi rimanemmo due giorni, prima di tornare in caserma a Calalzo. Poi ci tornammo, dopo cinque giorni, per restarvi un mese, con base a Castellavazzo, per perlustrare il greto del Piave sotto Codissago, per raccogliere i corpi rimasti intrappolati tra i tronchi e scavare sotto Longarone».
Lo dice con delicatezza e gli occhi lucidi, nell’abbraccio affettuoso dei nipoti: «Quel paesaggio. Ci ero passato tante volte, da ragazzo, in bicicletta: in quella valle era tutto piatto, levigato, come un deserto. Ricordo le imprecazioni dei superstiti, contro la diga e chi l’aveva voluta».
Nella Longarone distrutta, superstiti e soccorritori apprendono insieme, in quei giorni di lutto, delle responsabilità dell’Enel-Sade. «A quel punto il contesto in cui eravamo, che già di per sé era fuori dalla comprensione, ha assunto un peso ancora più grave», dice Giuseppe Carella. Arriva da Ostuni, in Puglia, nel 1963 faceva parte della 5° Lancieri di Novara. Stavano tornando da Codroipo quando è successo il disastro e sono arrivati a Longarone poche ore dopo. «C’erano ancora ruscelli che defluivano dalle sponde della valle verso il Piave e segnavano una spianata di sabbia che pareva una spiaggia: regolare, ondulata. Dovevamo operare nella zona su cui appena qualche ora prima c’era l’hotel Posta. Lì vicino abbiamo trovato, avvolta in un materasso, una bambina: era perfetta, senza un graffio. Se fossimo arrivati prima forse avremmo potuto salvarla, ma ormai non c’era più nulla da fare. Aveva una medaglietta col nome. Quel nome non lo dimenticherò mai. Poi ci hanno messo a setacciare i tronchi ammassati sul Piave, vicino a Pirago: avevano fatto da pettine e trattenevano decine di corpi straziati. Nei giorni successivi arrivaro gli emigranti. Si guardavano attorno, come persi, anche loro ci aiutarono. Ci offrivano bottiglie di grappa mentre scavavamo sotto le macerie delle loro case. Quella grappa ci dava la forza di affrontare i momenti peggiori».
«Scavando capitava di trovare corpi, scene strazianti» racconta Bruno Boschi, che è arrivato da Casalecchio. «Dopo dieci giorni ci capitò di trovare una donna ancora nel suo letto, ormai gonfia e tumefatta, con in braccio un bambino, e dietro il letto una culla con un neonato. Siamo arrivati la notte del disastro e siamo rimasti qui per 47 giorni, scavando nel fango, dormendo stretti in un garage a Provagna. Come fai a dimenticare momenti così?».
Bruno porta spesso la famiglia a Longarone e ogni volta l’emozione è forte: «La cosa che mi fa più rabbia è che sapevano che sarebbe successo».
Queste sono alcune delle storie di quei soccorritori, oggi uomini, che allora avevano vent’anni o poco più e che il dovere ha portato dentro quel disastro. In 50 anni nemmeno loro hanno potuto dimenticare: il Vajont gli si è piantato nel cuore come una spina.
Come un signore che ieri, dopo 50 anni, si è liberato di un peso diventato con il tempo insostenibile. «Io ero arrivato fino a Longarone quella notte, ma poi non ce l’ho fatta e sono scappato. Posso sfilare lo stesso?» chiede agli altri. Gli hanno risposto in coro: «Certo che puoi».
Michele Giacomel
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