Gulistan, terra di alpini: il racconto di una giornalista bellunese

Federica Fant ha vissuto fianco a fianco con i ragazzi del 7° Reggimento proprio nel luogo dove è stato ucciso Matteo Miotto
La giornalista bellunese intervista una donna afgana
La giornalista bellunese intervista una donna afgana
BELLUNO. «In Italia si parla di loro solo nei momenti di dolore, ma la loro opera è continua e instancabile. Prima di essere militari, sono uomini e donne».

E' appena tornata dall'Afghanistan, dove per giorni ha vissuto a stretto contatto con gli alpini del Settimo. Federica Fant, giornalista di Belluno, porta nel cuore le sequenze vissute a fianco dei nostri militari. Per diversi giorni ha stazionato a 1400 metri d'altezza e seguito da vicino le operazioni delle penne nere della Salsa. Ne esce un quadro complesso, dove però a vincere sono la solidarietà e lo spirito di sacrificio.

Sei stata poche settimane fa proprio nel Gulistan. Che atmosfera c'era tra i ragazzi del Settimo?
«Sono stata nei distretti di Bakwa e Gulistan, nella provincia di Farah, i primi di dicembre. Gulistan significa "valle delle rose": è un'area difficile, dove convivono deserto e montagne. L'umore dei ragazzi del 7º, nonostante sia difficile da credere soprattutto in un momento come questo, era obiettivamente buono. Certo, qualcuno era più stufo di altri, ma è assolutamente comprensibile. Sei mesi in un posto relativamente piccolo, abitato dalle stesse persone e con il rischio costante che ci siano azioni di insurgency, cioè di attacchi utilizzati prevalentemente come tecnica di disturbo, non sono pochi. Però nella difficoltà ci si unisce e lì, i militari del 7º, insieme ai genieri di Trento e ai trasmettitori di Avellino, sono una famiglia allargata. Si aiutano, si ascoltano, si sorridono e soprattutto lavorano insieme, fianco al fianco. Lavorano tutto il giorno. Sempre».

E' più un teatro di guerra o una missione di pace?
«Sicuramente una missione di pace, che, purtroppo, quando ci sono vittime assume l'aspetto di una guerra. Una guerra sleale. Gli afghani non sono solo i telebani. Anzi. Il problema è che "fa più rumore un albero che cade, che una foresta che cresce". Lì i militari, oltre a garantire la sicurezza delle basi dove operano, si dedicano alla cooperazione civile e militare (Cimic). Il sostegno italiano alle autorità locali è fondamentale. Si impegnano per l'attuazione di programmi di sviluppo. Si conquistano la fiducia della popolazione, che spesso si trova sotto scacco da una minoranza, che in nome di una religione che non è l'essenza dell'Islam, fa ciò che vuole, spesso disseminando solo terrore e morte».

Con quale spirito si affrontano le difficoltà di ogni giorno?
«Come ha ricordato più volte il loro comandante, il colonnello Paolo Sfarra, in Afghanistan non esistono sabati e domeniche: è sempre lunedì mattina. Eppure non ho visto svogliatezza o noia. A Bakwa e in Gulistan ogni alpino è una "formica laboriosa" da mattina a sera. E garantisco che non si dorme molto in missione: vuoi perché si prende un ritmo zelante, vuoi perché ogni minimo rumore ti fa saltare in piedi a qualsiasi ora del giorno e della notte. Lo spirito, quando non ci sono tragedie, è buono. Sorridono e mi son sembrati veramente molto affiatati. C'è una cappellina in mezzo alla Fob Lavaredo di Bakwa, è stata eretta per Gianmarco Manca, Francesco Vannozzi, Sebastiano Ville e Marco Pedone del 7º, morti a ottobre. Ogni giorno si sa cosa si rischia, ma si lavora con convinzione e professionalità».

Da giornalista hai raccontato quello che hai visto. Ma cosa hai provato da civile a trovarti in un teatro così complicato? Hai avuto paura?
«Senza retorica posso garantire che ho provato un senso di gratitudine verso tutti coloro che decidono di trascorrere un periodo di sei mesi all'estero in nome di un giuramento fatto al Tricolore e alla Patria. Un impegno che implica soprattutto sacrificio: non è facile separarsi dalle famiglie, incontrarsi solo attraverso skipe (se si è fortunati), vedere crescere i figli a distanza e saper morire qualcuno senza potersi organizzare per andare almeno al funerale. Da civile, inizialmente, sono rimasta molto stupita di come si vivesse in una base avanzata. Bagni chimici (tutte turche), docce chimiche, mensa, tende e brande non erano mai state qualcosa che apparteneva alla mia vita ordinaria. Ma dopo 24 ore diventa tutto naturale. E se un giorno capita di lavarsi con una bottiglietta d'acqua, pazienza. C'è chi sta peggio. Ci sono stati momenti di timore: ogni rumore rappresenta una minaccia. Si tratta della famosa "tecnica di disturbo" che gli insurgents utilizzano comunemente. Mi addormentavo con il segno della Croce e mi risvegliavo ogni mattina col sorriso. Nessuno badava a me, sono stata trattata come una di loro. Solo i nostri compiti erano diversi. E anche le armi. Ma una penna vale quanto una beretta, in fondo».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi