«Ho avuto molta paura, stavolta ho rischiato»

Danilo Calonego racconta i 47 giorni della prigionia «Ho pregato e invocato mia madre. In Libia non ci torno più»

SEDICO. «Ho avuto paura, soprattutto nei primi giorni. Ho invocato mia madre e pregato, a lungo. Ho rischiato stavolta, in Libia non ho intenzione di tornare». Sono le 9.30 del mattino quando Danilo Calonego esce dalla sua casa in via Casate, a Peron. Camicia azzurra, lo sguardo riposato, racconta la gioia di essere stato liberato ma anche la paura che ha vissuto, specie nei primi giorni dopo il rapimento. «La prima cosa che voglio dire, però, è grazie. A tutto il governo italiano, le forze armate, la Farnesina, i miei familiari. Non pensavo di aver creato un simile casino».

Sorride, Danilo Calonego, dopo una notte trascorsa a riposare nel suo letto, a Peron. Il tecnico è stato liberato venerdì in tarda serata. Affidato agli 007 italiani insieme al collega Bruno Cacace e all’italo-canadese Frank Boccia, è arrivato a Roma sabato mattina, dov’è stato sentito dal Pm Sergio Colaiocco. In serata è stato imbarcato su un aereo, direzione Venezia. Scortato dalle forze dell’ordine, è arrivato al Marco Polo attorno a mezzanotte (con un’ora e mezza di ritardo rispetto a quanto previsto). Qui ha trovato ad attenderlo le figlie Simona e Pamela e la moglie Melika. A Peron è arrivato alle 2.30 del mattino. «Non mi rendo ancora conto della situazione. Mi sembra quasi di essere in un sogno».

Come l’hanno trattata durante la prigionia?

«Bene, ci hanno sempre dato da mangiare e da bere. Non ci hanno mai picchiati, ho solo preso qualche botta durante il trasporto. Uno di loro era molto premuroso, ci dava the, latte. Mi chiamavano anziano, mi rispettavano come si usa nella loro cultura. I primi giorni facevamo fatica a capire che ore fossero, perché ci avevano portato via gli orologi, ma poi abbiamo cominciato a orientarci con il display del condizionatore».

Lei ha detto che è stato rapito per errore.

«Non posso dire nulla in merito, c’è un’indagine in corso».

Ci racconti della prigionia. A cosa ha pensato in questi 47 giorni?

«Sono stati giorni lunghi, difficili, duri. Ringrazio Dio che mi ha dato la forza di resistere. Dicevo il Rosario tutti i giorni, non sapevo a cosa pensare, perché quando mi veniva in mente la mia famiglia mi veniva da piangere. In quei momenti bisogna solo avere fede, coraggio e speranza».

Ha avuto paura?

«I primi giorni sì, sono stati i più duri. Ma anche il giorno in cui ci hanno liberati avevo paura, perché non si può mai sapere cos’hanno in testa queste persone. Mi sentivo come se fossi nel braccio della morte».

A chi pensava in quei giorni?

«A mia madre, perché nei momenti di grande difficoltà è a lei che si pensa. Pensavo “Mamma, aiutami tu”, la chiamavo anche nel sonno quando facevo gli incubi».

Come trascorreva le giornate?

«Guardando il soffitto e pregando. Ma avevo paura, perché non sapevo niente della mia famiglia, di come stessero. È stata una brutta esperienza, che non auguro a nessuno».

Tornerà in Libia?

«Ho chiuso con la Libia. Ci ho passato trent'anni, direi che è giunto il momento di non andarci più. Del resto penso che la Farnesina non manderebbe più italiani in quel Paese, ci sono troppi problemi. E penso anche che non ci siano più tanti italiani disposti ad andarci. Io sconsiglierei il viaggio».

Quali sono state le prime cose che ha pensato quando l'hanno liberata?

«Ho pensato a mia madre, alle mie figlie, a mia moglie. Quando sono arrivato in aeroporto e mi sono guardato allo specchio non mi sono riconosciuto, con la barba lunga. Non c’erano specchi dove ci tenevano».

E quando ha visto le sue figlie?

«Le ho abbracciate, è stata un'emozione fortissima. Non avevo neanche lacrime per piangere. Poi quando sono arrivato a Peron ho visto tutti i miei familiari in giardino, che mi aspettavano... una grande emozione».

Quando ha avuto la certezza che eravate liberi?

«Quando siamo saliti sull'aereo che ci ha portati in Italia. Non mi rendevo neanche conto di dove fossi».

Parlava con i suoi carcerieri?

«Soprattutto con uno, perché parlo bene l’arabo. Mi diceva che è sposato, che ha una moglie incinta. Anche io gli parlavo della mia famiglia, di cose normali insomma».

E il rapporto con Bruno Cacace?

«Un amico. Ci siamo fatti compagnia a vicenda. Eravamo lì, in attesa, parlavamo del lavoro, della famiglia, del più e del meno».

Lei prende dei farmaci per la pressione. Come ha fatto in quei giorni?

«Non li ho presi. Mi è salita un po’ la pressione e anche la circolazione del sangue ne ha risentito, ma adesso riprenderò tutti i miei ritmi».

Conserva un bel ricordo della Libia?

«Ho sempre avuto simpatia per i libici. Mi dispiace che sia successa questa cosa, perché mi hanno sempre trattato bene, altrimenti non ci avrei vissuto per trent’anni».

Adesso che programmi ha?

«Riposarmi, intanto. Stare con la mia famiglia. Poi andare in Marocco con mia moglie».

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