PIEVE DI CADORE. «Avevo rilevato nel 2002 un negozio di scarpe ben avviato a Pieve di Cadore, ma sono stato costretto a chiudere nel 2015, perché non c’era più giro». Parole di Valerio Alberti, che aggiunge con l’amaro in bocca. «Chiudere in questo modo è come fallire».
«Insieme con mia moglie avevamo una clientela abituale e prodotti tradizionali che puntavano sul comfort più che sulla moda. Tenevamo aperto ogni giorno durante l’estate, ma alla fine l’attività di un mese non ripaga il mancato guadagno degli altri undici. Battere la concorrenza dei centri commerciali e delle vendite on line non è possibile per un piccolo negozio di paese. Alla fine», racconta Alberti, «abbiamo deciso di chiudere, pur rimettendoci. Abbiamo svenduto praticamente tutto il magazzino, mettendo scarpe acquistate per 50-70 euro a 4-5 euro».
Il problema è che non c’è più gente: «È terribile vedere il centro del paese vuoto al sabato: tutti vanno nei centri commerciali e non ci sono attrattive per i turisti e neanche le strutture adeguate per accoglierli. Non si può pensare che uno venga a Pieve solo perché è la città natale del Tiziano. C’è anche il lago, che però in estate però viene svuotato dall’Enel».
Vittima della crisi e dell’abbandono del territorio anche Vittorino Boschet, titolare di un negozio di mobili a Pieve di Cadore, che tre anni fa ha deciso di chiudere i battenti. «Ho iniziato nel 1971, le cose sono andate bene, finché la gente non è andata nei centri commerciali, poi è arrivata la crisi e sono mancati i soldi da spendere. Ma qui in Cadore manca un programma di recupero dell’intera area. Così non si può andare avanti. È tutto morto».
Della stessa idea Aurora Ciet di Gosaldo, per 39 anni gestrice del bar pizzeria Posta, chiuso a gennaio 2015. «Ai bei tempi si teneva aperto dalla mattina alle 7 fino alle 23 e c’era sempre qualcuno che passava. Ora invece il bar del paese chiude alle 19 o anche prima. È una desolazione. Non si vede nessuno. Qui mancano gli alberghi, le strutture per accogliere i turisti. Un tempo era pieno di tedeschi».
Anche i negozi che oggi si chiamerebbero di nicchia hanno dovuto chiudere i battenti. Adalberto Berletti per 60 anni ha venduto sementi, piante, pulcini e attrezzature per giardino ad Agordo. «Avevo una buona clientela, poi sono arrivati i supermercati, la crisi ha tolto potere di acquisto alle famiglie, le leggi hanno limitato la caccia. Ultimamente si lavorava per pagare le tasse. E ancora non bastavano. Così», dice sconsolato, «si perdono i rapporti umani. A me piaceva dare consigli su come tenere una pianta, come allevare i pulcini. Oggi non è più così».
«Alla fine lavoravo con i residenti anziani e le loro badanti, gli unici rimasti qui. Ma come si capisce non c’è stato ricambio e così dopo 13 anni di lavoro ho deciso di chiudere il minimarket», dice Laura Bortoluzzi di Tambre.
Dopo 65 anni di attività ha chiuso anche il negozio di alimentari di Augusto Gliera, tra Arabba e Livinallongo. «Il problema è che il ceto medio è sparito, il ricco non si ferma e il povero non spende».(p.d.a.)