I giovani ritornano «ostinati e resistenti» all’agricoltura

In dieci anni c’è stato crollo del 40 per cento delle aziende poi la ripresa. Fondi frammentati e siccità tra i problemi 
BELLUNO. L’altitudine fa la differenza, non è una questione di poco conto. E influenza molto le pratiche agricole. Per questo fare agricoltura e allevamento in provincia di Belluno è più difficile rispetto alle altre realtà del Veneto. Ma c’è chi resiste e risponde alle criticità introducendo modelli che, pur basandosi sulle produzioni di un tempo, adottano elementi di novità.


«Una resistenza e un’ostinazione che possiamo definire commoventi», ha detto ieri sera in sala Bianchi, a Belluno, il sociologo Diego Cason. «Ma sono queste le virtù che ci salveranno». Già, perché una piccola rivoluzione agricola e zootecnica costituisce uno dei fattori che possono sottrarre la montagna allo spopolamento. Anche se c’è ancora parecchia strada da fare. Lo hanno dimostrato le testimonianze portate nel corso della conferenza “L’agricoltura di montagna ha di nuovo un futuro?”, organizzata nell’ambito della rassegna “Oltre le vette”, che quest’anno ha scelto non a caso un tema specifico: quello della “montagna fertile”.


«Le criticità per chi lavora nel settore primario di montagna sono parecchie», ha spiegato Andrea Omizzolo, ricercatore Eurac e consulente per la Fondazione Dolomiti Unesco. «In primis la frammentazione fondiaria. Ma anche il ritorno dei grandi carnivori, la difficoltà di accesso ai servizi internet, la carenza idrica (che diventerà sempre più un problema), riuscire a coltivare senza utilizzo di prodotti chimici».


Ma sono anche numerose le potenzialità e gli spazi su cui si può andare a investire. Omizzolo ha parlato per esempio della viticoltura legata alle varietà resistenti, della sfida dell’agriturismo e delle altre forme di ospitalità, del settore legno e della selvicoltura (ancora troppo trascurato), dei prodotti di nicchia e di elevata qualità, dell’allevamento e della pastorizia, della coltivazione di erbe aromatiche e spezie.


«Sempre tenendo presente che a fare la differenza sono specificità e tipicità», ha aggiunto. «I prodotti tradizionali devono essere di alta qualità, altrimenti non si può andare sul mercato. Come minimo bisogna avere una certificazione». Ma a rendere il tutto più complesso in montagna, come si diceva all’inizio, è l’orografia stessa del territorio, «e il fatto che, guardando la carta geologica della parte alta della provincia», ha riflettuto Cason, «è impossibile trovare quattro ettari di terreno che abbiano la stessa natura e fertilità».


L’area sotto i 500 metri, della Valbelluna, è quella che più assomiglia all’agricoltura di pianura. Ma i numeri sono ben diversi. Tra i 1.000 e i 1.300 metri vi è un frazionamento che ostacola comunicazione e attività economiche. Sopra i 1.300 metri la residenza è fortemente condizionata da fattori climatici e geomorfologici e le attività economiche sono spesso di difficile esercizio.


«Dal 2000 al 2010 le imprese agricole sono diminuite in tutto il Veneto, eccetto Padova e Rovigo», ha aggiunto Cason. «In provincia di Belluno il calo è stato di quasi il 40%. Fortunatamente, negli anni successivi c’è stato un ritorno dei giovani in agricoltura. E ci sono per esempio alcune realtà, come Livinallongo, Sappada e Comelico, che continuano a praticare l’allevamento bovino. Questo è commovente non perché residuo del passato, ma perché se una comunità non rimane ancorata al proprio territorio, occupandosene anche in termini produttivi, è destinata a sparire». In provincia la formula di conduzione prevalente è quella diretta.


«La superficie utilizzabile è minore rispetto alla pianura», ha aggiunto Cason, «e si assiste a una frammentazione di proprietà allucinante. Per fare agricoltura in montagna ci vogliono strumenti e metodi particolari, molto simili a quelli dei nostri vicini di casa “speciali”, che possono però contare su tutte altre opportunità e risorse».


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