I ricordi degli alpini: «Noi amici dal giorno del Vajont»
BELLUNO. Ore 8.45. È ancora presto ma a Cavarzano si vedono i primi alpini. L’ammassamento per il quinto raduno della Brigata Alpini Cadore comincia in allegria. Complici il sole e, perché no, un bicchiere di vino. Alcuni vengono da lontano, preferiscono starsene in disparte, isolati; si mettono a leggere il diario personale o a guardare le montagne. Altri fermano tutti pur di fare due chiacchiere in onore dei vecchi tempi. Vige ancora un certo classismo. Non solo tra le caserme ma anche tra i vari reparti. Ieri mattina a Cavarzano sono arrivati in tantissimi. Ai lati del piazzale presenti due stand con calamite, cappelli, penne, zaini, tutto dedicato agli alpini. Senza contare le mitiche medaglie delle varie adunate.
La sfilata. Mettere in ordine migliaia di alpini non è una cosa semplice. Ma la disciplina imparata durante gli anni di naja non si dimentica e alle 10 circa, dopo gli onori alle massime autorità civili e militari, comincia la sfilata. Gli alpini vengono divisi in cinque settori lungo tutta via Giovanni Paolo I. In testa la fanfara dell’ex Brigata Cadore, i gonfaloni di Belluno, Feltre, Pieve di Cadore, della Provincia e della Regione. Poi i sindaci, i politici, le autorità, i vessilli delle sezioni Ana, le crocerossine, i gagliardetti dei gruppi e i vessilli delle sezioni. Il secondo settore si apre con la fanfara Borsoi. E poi gli ex comandanti, il Quartier generale, il Reparto comando, il Meteomont, il Nucleo carabinieri, il Plotone alpini paracadutisti, la Compagnia genio e trasmissioni e l’aviazione. Nel terzo sfilano invece il 7° reggimento alpini Battaglione Feltre, 12° Reggimento alpini Battaglione Cadore e 16° Reggimento Belluno Battaglione di Belluno. Chiudono la compagnia i Controcarri e il Gruppo salmerie di brigata. Il quarto è composto dalla Fanfara Val Cantuna e dal 6° Reggimento Artiglieria da montagna con il Gruppo Lanzo, Agordo e Pieve di Cadore. Ultimi, nel quinto settore ma non meno importanti, il Raggruppamento Servizi Cadore e il Battaglione Logistico Cadore. Chiudono la fila gli scudetti delle brigate Taurinense, Orobica, Tridentina, Julia, le bandiere e gli uomini (e donne) della protezione civile.
Ti ricordi il Vajont? Tra le varie storie che si sentono raccontare c’è un elemento in comune che nessun alpino riesce a dimenticare: il Vajont. «Siamo stati i primi ad arrivare lì il giorno del disastro», ha raccontato Giacomo Beverelli, sergente maggiore della compagnia trasmissioni alla Fantuzzi. «Insieme a quattro alpini abbiamo preso un elicottero americano e siamo stati 40 giorni accampati alla diga del Vajont per monitorare il livello dell’acqua. Dormivamo in tenda e avevamo a nostra disposizione solo i “viveri k” e un po’ di cioccolata. Ogni tanto sentivamo ancora la terra che franava».
La tragedia del Vajont non ha portato solo sciagure. Perché ha unito delle persone per sempre. È il caso di Adriano Zilio di Bassano del Grappa e di Gioachino Speranza di Belluno, entrambi autisti di automezzi del Settimo. «Non possiamo dimenticare quella notte», hanno ricordato i due alpini. «Dicevano che si era rotta la diga, ma non era vero. In 15 minuti ci siamo preparati e siamo partiti. Arrivati a Fortogna ci siamo dovuti fermare perché l’acqua arrivava al ginocchio. Così abbiamo proseguito a piedi con le torce. Vengono ancora i brividi eppure siamo un gruppo unito che si trova ogni anno. Le famiglie fanno ormai parte della compagnia».
Piergiorgio De Martin suonava il clarinetto nella fanfara del Settimo: «Suonavamo ogni giorno ininterrottamente. L’unica cosa che è riuscita a fermarci è stato il Vajont. Alle 11.30 della mattina eravamo già su e ci siamo stati per due mesi. I giovani oggi avrebbero bisogno della naja. Ma come l’abbiamo fatta noi, non come è oggi. Noi abbiamo imparato che non puoi fare sempre quello che vuoi e devi rispettare gli anziani». Ma non c’è solo il Vajont nella memoria degli Alpini. «Mi ricordo quando c’è stata la manovra con la Nato al San Pellegrino», ha affermato Dario Nogarè nella compagnia comando al Settimo. «Erano i primi anni ’60. Alcuni avevano fatto delle igloo dove ripararsi. Io ho dormito 20 giorni in un cassone del camion con gli scarponi sotto la testa affinché non si ghiacciassero. Però ci divertivamo molto».
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