Il foreign fighter rimane latitante: ripartono le ricerche
La Corte d’Assise ha rinviato il processo per terrorismo Karamaleski potrebbe non sapere nulla o essere morto
BELLUNO. O lo ha saputo da internet o non lo ha saputo. Non è detto infatti che a Raqqa, l’allora capitale siriana del sedicente Stato Islamico, ci fosse una connessione disponibile e che Munifer Karamaleski, con un computer o un telefonino, sia venuto a sapere di essere finito a processo in Italia per associazione con finalità di terrorismo, anche internazionale.
Di fronte alla Corte d’Assise di Belluno, il pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia veneziana, Roberto Terzo, ha chiesto ai due giudici togati Coniglio e Feletto e ai sei giudici popolari la revoca del decreto di latitanza e la sospensione del processo.
Rinvio a novembre.
Sarebbe stato strano se il difensore d’ufficio del foreign fighter macedone, Marzia Ianese, non si fosse associata a questa richiesta, dopo che, comunque, il non ancora trentenne trapiantato a Chies d’Alpago era stato rinviato a giudizio dal gup Massimo Vicinanza, su richiesta dei pubblici ministeri titolari del fascicolo Adelchi D’Ippolito e Francesca Crupi, in quanto si era disposto di procedere in assenza dell’imputato. Qualche minuto di camera di consiglio e la Corte ha sospeso il procedimento, per permettere alla polizia giudiziaria di effettuare altre ricerche. Già fissata la prossima udienza per le 9.30 del 14 novembre.
«Torna a casa».
Tutti sono consapevoli del fatto che l’imputato potrebbe anche essere deceduto, durante l’assedio alla città eletta a capitale dal Califfato nero da parte delle forze curde-siriane alleate degli Stati Uniti. L’ultimo contatto tra Karamaleski e la famiglia a Palughetto di Chies d’Alpago risale alla primavera di quattro anni fa. In quell’occasione, i familiari l’avevano invitato a «tornare a casa, perché i carabinieri lo stavano cercando». Poi più niente: non una telefonata, non una chiacchierata su Skype o Viber, magari con la sorella più tecnologica.
Indagini e perquisizione.
L’operaio Karamaleski, nel dicembre 2013, era partito per la Siria con la moglie Ajtena e tre bambine piccolissime. Con lui anche l’imbianchino bosniaco che viveva a Longarone, Ismar Mesinovic e il piccolo Ismail Davud. Nell’ottobre 2014, c’è un decreto di perquisizione, ma in realtà a essere perquisita è l’integrata famiglia macedone e non l’uomo, che peraltro non è ancora indagato. La magistratura è concentrata sull’imam bosniaco Husein Bilal Bosnic e sui presunti reclutatori Ajhan Veapi e Anass Abu Jaffar, il marocchino che sarà espulso e rimandato in Marocco. Bosnic e Veapi sono stati condannati, rispettivamente, a sette e quattro anni e otto mesi. Solo in seguito, è spuntato anche lo sloveno Rok Zavbi, che avrebbe addestrato Karamaleski e Mesinovic: ha preso tre anni e quattro mesi.
Il mancato arresto.
Karamaleski era dato come membro di un gruppo di miliziani, che si occupava della custodia del deposito del bottino di guerra. Ecco perché nel giugno 2016 i carabinieri non possono arrestarlo. Ma sa di essere sotto processo? Secondo tutti, no. È ancora vivo, dopo tutto quello che è successo? Nessuno lo sa. Per questo si rinvia.
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