Il gip non crede a Izzo: chiuso il caso Corazzin
Il caso Corazzin è chiuso. La Procura della Repubblica di Perugia, che aveva chiesto l’archiviazione, e il giudice per le indagini preliminari Lidia Brutti non hanno creduto alla ricostruzione di Angelo Izzo. Il «mostro del Circeo» aveva parlato con il procuratore di Belluno, Francesco Saverio Pavone di rapimento a Tai di Cadore durante l’agosto del 1975 e di uccisione in una villa sul lago Trasimeno, durante una sorta di rituale, dopo sevizie e violenze di gruppo.
Il gip ha sciolto la riserva martedì, dopo che la zia della ragazza friulana Giuseppina Trevisan aveva presentato opposizione. L’ultima udienza si era tenuta lo scorso 5 luglio e, per tutto questo tempo, il magistrato si è riletta interamente le carte: «La notizia di reato», ha scritto, «tratta dalle dichiarazioni di Angelo Izzo deve ritenersi radicalmente infondata e priva di qualsivoglia possibilità di sviluppo probatorio».
Oltre al provvedimento di archiviazione di una trentina di pagine, c’è la trasmissione degli atti al pubblico ministero, affinché valuti eventuali ipotesi di reato a carico di Izzo.
«La vicenda si chiude qui», sottolinea l’avvocato avellinese Rolando Iorio, che lo difende ormai da diverso tempo, «non ci sono altre possibilità, alla fine di questa lunga attesa».
Oltre a Izzo, erano indagati Giovanni Guidi, Enrico e Fabio Annoscia e Serafino Di Luia, mentre era uscito dal procedimento Giampietro Parboni Arquati, perché nel frattempo deceduto. «Facemmo come al Circeo», aveva detto Izzo al magistrato bellunese sul destino dell’allora 17enne di San Vito al Tagliamento ed era lui il primo a voler andare a processo: «Processatemi, devo togliermi un peso dalla coscienza», ha aggiunto in videoconferenza dal carcere di Velletri, dove sta scontando degli ergastoli.
Il legale della famiglia Corazzin ha accolto positivamente l’archiviazione, del resto non c’erano molte altre possibilità. «È la fine di un incubo», ha dichiarato al giornale friulano Messaggero Veneto, «perché dopo 44 anni è quasi impossibile fare delle indagini su luoghi e fatti così datati».
Mentre la cugina di Rossella Mara non nasconde il suo disappunto: «Sono rimasta delusa. Abbiamo riaperto una ferita che era in qualche modo confinata, dopo tanto tempo. Non ho ancora letto bene la sentenza, ma mi pare di avere visto che le motivazioni sono sempre le stesse. Avrei preferito che fossero state fatte delle indagini in più o almeno delle verifiche per darmi la certezza che fosse un’invenzione».
Rimane un grande, inconsolabile dolore: «Un familiare non può rassegnarsi quando scompare un proprio caro, le indagini sulla scomparsa delle persone non devono mai essere archiviate, soprattutto a 17 anni e in quell’epoca. La famiglia ha diritto ad avere una risposta. Dopo avere letto la sentenza, mi consulterò per capire se ci sono ancora margini per agire». —
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