Il medico malato: «Ho scritto l'addio a mia moglie e ai miei figli»
AGORDO
«Ha mai avuto paura di morire?». Massimiliano Mosca, 62 anni, geriatra, lascia intendere, con lo sguardo interrogativo, di essere sorpreso della domanda. Si concede una pausa e poi confida: «Sì, anch’io ho avuto paura. In quei giorni non sapevo come il virus…virava». Per fortuna ha virato al meglio.
Sorride, il dottor Mosca: «Come vede, sono ancora vivo, ma sono stati 50 giorni di faticosa clausura». 50 giorni? «Sì, tanto è durata la quarantena. Per fortuna non sono finito in terapia intensiva. Mi sono chiuso in casa, nel mio appartamento di Agordo, da solo, perché temevo di infettare moglie e figli se li avessi fatti salire da San Pietro di Feletto dove abito».
Mosca è il primario di medicina ad Agordo ed è il direttore del dipartimento dell’area medica degli ospedali dell’Usl Dolomiti. Da lui dipende il coordinamento degli “ospedali di comunità” che ancora tre giorni fa hanno chiuso per assenza di pazienti. Il dottor Mosca ha un segreto di quella settimana di marzo in cui non vedeva la luce in fondo al tunnel. Quando ha capito che i sintomi del contagio erano proprio quelli letali – anche perché ogni giorno e più volte al giorno gli telefonavano i colleghi medici ed i collaboratori del reparto – lui ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera-testamento alla moglie e un’altra a ciascuno dei due figli.
Le parole vergate? «Ho scritto ciò che per tanti motivi nella vita, dai ritmi spesso impossibili, non ci si riesce a dire, neppure se si vive insieme». Quella lettera, Massimiliano, uscito dal tunnel e quindi superata la crisi, l’ha comunque consegnata ai suoi affetti, ma ha chiesto loro di non aprirla. Fatelo – ha detto – quando non ci sarò più. Era il sei marzo, Mosca lo ricorda bene, quando veniva contagiato insieme ad altri quattro colleghi.
Una dottoressa aveva partecipato ad un convegno in Emilia Romagna; rientrata a casa e smaltita un po’ di febbre, si era recata al lavoro. L’infezione si è sviluppata immediatamente. «Di quella quarantena ricordo soprattutto», confida Mosca, «la grande frustrazione perché io stavo a casa, magari a prepararmi il pranzo e la cena e a fare le pulizie dell’appartamento, mentre i miei amici di reparto stavano al fronte e combattevano una guerra insidiosa: non riuscivamo a capire come fosse il nemico».
Grande frustrazione, ma anche grandissima, insopportabile solitudine.
«Mi pesava la mancanza di mia moglie e dei miei figli, anche se volevo proteggerli. Ma è stata proprio l’esperienza di quei giorni ad aiutarmi a capire lo strazio di tanti familiari e parenti dei nostri pazienti, morti senza il loro sguardo. E quando sono ritornato in ospedale mi sono commosso nel vedere le mie collaboratrici prendere le mani dei nostri anziani ed accarezzarle come fossero quelle dei loro genitori».
Il dottor Mosca non ha nessun dubbio: proprio queste sono le grandi lezioni di vita che ci lascia una tragica esperienza di morte. –
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