Il padrino di Camberra

Si illuse sin dall'inizio che al di là dell'oceano avrebbe fatto finalmente fortuna e sarebbe tornato al suo paese dimostrando come nella vita bisogna avere il coraggio di emigrare. Erano gli anni cinquanta e l'alternativa alla fame, in un paesino di montagna, era fare il seggiolaio per le strade toscane o umbre, dove suo padre già c'era stato o il contadino con una vacca in stalla e qualche pecora. Quando il governo De Gasperi aprì verso l'Australia fu il primo ad andare in Comune ad iscriversi ed a preparare i documenti. Non disse nulla fino alla fine al padre Toni ed alla mamma Giovanna, loro non dovevano sapere, si sarebbero rattristati e gli avrebbero fatto un sacco di storie. Beppino era un tipo sempre sorridente, non tanto alto, con degli occhi azzurro chiaro e dei capelli biondi lisci con dei ricci all'estremità, che lui teneva sempre profumati con la brillantina Linetti.
Partì, assieme ad un suo paesano coetaneo ed a due giovani di un paese vicino, verso la metà di settembre, con la corriera azzurra di Buzzati, destinazione Genova, da dove, diceva lui, sarebbero saliti su un grande bastimento, destinazione Camberra, capitale dell'Australia. Da casa sua si vedeva la campagna del paese con i campi seminati a granturco, pronto per essere raccolto, poi il paese, il ripido bosco che stava cambiando colore e l'Agner, lo splendido Agner. Un ultimo sguardo, quasi a fotografare quel paesaggio ed imprimerlo bene in mente e via, verso l'oceano e dall'altra parte del mondo. Era passato a salutare i miei genitori con i quali era molto legato, ed io che avevo sei anni ed ero il suo figlioccio di battesimo, ricordo sempre quella carezza che mi arruffò i capelli ed il suo sguardo vetroso, era commosso, ma non voleva darlo a vedere. Ti scriverò mi disse, tu impara a scrivere così potrai rispondermi e quando ritorno, vedrai cosa ti porto.
La sua prima lettera arrivò dopo parecchi mesi, era un foglio con delle righe azzurrine, scritta con inchiostro blu scuro. C'era un francobollo strano con un animale che non conoscevo, mi spiegarono che era un canguro e che aveva una sacca sulla pancia dove allevava la figliolanza e che saltava sulle zampe di dietro equilibrandosi sulla coda, mentre le zampe davanti eran corte come delle braccia.....io cercai di immaginarmelo e pensai che il regalo che mi avrebbe portato, quando tornava, sarebbe stato un piccolo di questo animale. Per il resto non fu molto esplicito, restò sul vago, ma traspariva poco entusiasmo da quelle righe, chiese che rispondessimo e si percepiva la nostalgia. L'unica cosa che ci disse fu che il viaggio in nave era durato più del previsto e che l'oceano era così grande che mai lui lo avrebbe immaginato.
Gli rispondemmo subito, nella parte bassa della risposta, mio padre volle che scrivessi qualcosa anch'io per dimostrargli che a scuola stavo imparando ormai a mettere assieme lettere e parole.
La corrispondenza con Beppino, durò circa due anni, poche lettere all'anno servivano ad avere sue notizie ed a dargli quelle del paese. Poi, morto il padre e la madre non sapemmo più niente ne di lui né della vita che conduceva nella terra dei canguri.
Passarono quarantacinque anni ed un giorno mi dissero che sarebbe tornato e che qualcuno sarebbe andato a prenderlo all'aeroporto di Venezia. Io ormai avevi cinquantun anni e capii che non sarebbe tornato con un piccolo di canguro sottobraccio, ma crebbe in me la curiosità di incontrarlo, di rivederlo.
Arrivò che era verso Natale, forse il quindici di dicembre, abituato alle pianure australiane gli sembrò che una volta imboccato il canale che da Belluno lo portava ad Agordo le montagne gli cadessero addosso tanto eran vicine, quando però arrivò dove il canale si allarga sulla piana di Agordo e vide dalla piazza l'Agner si fermò, immobile si guardò intorno, le montagne erano piene di neve e nel tramonto la catena del San Sebastiano era illuminata dall'ultimo raggio di sole. Riprese la strada per Voltago.
La sua era la prima casa del paese, un fabbricato costruito con pietre e calce, intonacato e affrescato esternamente con quel tipo di calce che i nonni facevano nelle calchere sparse qua e là e che una volta spenta prendeva un color chiaro particolare.
Era un fabbricato dal tetto a quattro falde con tegole grige di eternit e con la soffitta che aveva delle numerose finestre ovali senza serramenti e dove suo padre metteva la legna a tamponare le aperture finché si fosse seccata, poi d'inverno, con tanta neve, era più comodo andare in soffitta a prenderla senza uscire al freddo.
Guardò quella casa che non vedeva da anni, nulla era cambiato, le finestre in soffitta avevan ancora la legna lasciata dai genitori, solo il fienile di fianco era stato demolito per fare un parcheggio comunale, ora si poteva vedere meglio tutta la campagna e l'Agner.
Scese dalla macchina che lo aveva portato sin lì, si era vestito elegante per tornare dopo quarantacinque anni, un abito grigio, scarpe nere a punta con suole di cuoio ed una cravatta larga su camicia bianca. Si girò intorno diverse volte come non avesse riconosciuto il suo vecchio paese, eppure quella casa era la sua, ma il resto.....tutto era cambiato. Istintivamente gli venne da sedersi sulla scarpata d'erba secca, che essendo ripida non aveva neve, si prese la faccia tra le mani e senza far rumore dette libero sfogo al cuore....lacrime accumulate nella lontana Australia in quarantacinque anni....Volle rivedere l'interno ormai disabitato della sua vecchia casa, tutto era rimasto come allora, mobili, quadri della Madonna appesi al muro e la Sacra Famiglia sopra il letto dei suoi. Anche il suo letto era rimasto, compreso il catino per lavarsi la faccia e la brocca di ferro smaltato. Percorse stanza per stanza, nel freddo di quel dicembre particolare, ridiscese la scala e si fece accompagnare in albergo dove aveva prenotato una stanza.
Lo vidi solo il giorno successivo, mentre, dopo esser passato in municipio per salutare, stava andando alla posta per spedire una lettera con una cartolina del paese come lo aveva ritrovato. Passava sotto casa mia, lo vidi, il suo fisico minuto era rimasto quello di un tempo, così i suoi capelli biondi, un po più radi, ma sempre imbrillantinati, uscii sul terrazzo e lo chiamai....”santol Beppinooo”...alzò lo sguardo e passò dalla parte della strada dove era più vicino, mi chiese...”chi sei?”....quando glielo dissi, salì la rampa quasi di corsa, suonò il campanello ed io che lo aspettavo dietro la porta...mi abbracciò....e due lacrime gli scesero, schiarendo ancor di più quegli occhi azzurro chiaro. Volle vedere la mia casa e salutare mio padre, poi rimanemmo d'accordo che le tre sere successive sarebbe stato mio ospite, “escluso il giorno di Natale” aggiunse, “che passerò con mia sorella”.
Dalla sera successiva, cominciai dunque a conoscere la vera vita di Beppino dall'altra parte del mondo. Iniziò maledendo De Gasperi e le sue tante promesse a quelli che dovevano convincersi di partire, poi raccontò “...scendemmo dal bastimento dopo mesi di mare o meglio di oceano, eravamo disfatti dalla stanchezza, ci raccolsero e divisero per stati di provenienza, salimmo su un camion con panchine in legno, cabinato con un telo grosso, corremmo senza sapere dove, poi quando il mezzo si fermò ci fecero scendere e vedemmo una recinzione chilometrica con all'interno delle baracche in legno, qualcuno in un italiano stentato ci spiegò che noi lì dovevamo soggiornare per una quarantina di giorni, preparassimo le carte dei documenti portateci dietro ed ognuno prendesse posto in un letto della grande camerata, la cucina era annessa, ma salvo la colazione della mattina tutto era a carico nostro da provvedere in una specie di supermarket vicino alle baracche. Entrammo e cercammo, noi quattro, di prenderci le brande uno vicino all'altro....ma avevamo finito i soldi il giorno dopo, così con quello che ci era rimasto comprammo una padella in ferro molto grande e visto che conigli invadevano prati e boschi, mangiammo per quaranta giorni coniglio a mezzogiorno e sera. Nel bosco di abeti sopra una collina trovammo anche dei porcini, un po' più piccoli dei nostri, che servirono a far cambiar gusto al coniglio. C'eran delle guardie, ma nulla successe in quei quaranta giorni, salvo l'obbligo di una doccia giornaliera con un sapone fornito dalle ditte che poi ci avrebbero accolto per lavorare.
Il quarantunesimo giorno, puntuali  vennero con le offerte di lavoro, per lo più eran miniere, ferro, rame, bauxite, manganese....c'era poco da scegliere, prendemmo quella di ferro perché il capo parlava un po' di italiano e nessuno di noi sapeva l'inglese. Furono anni duri per non dir di più, se avessimo potuto scappare saremmo scappati, poi un po' alla volta imparammo l'inglese e cominciammo a muoverci, io quando potei me ne uscii dal ferro e andai a lavorare per alcuni anni in una miniera a cielo aperto di diamanti.
Eravamo soli, persi in un mondo non nostro, nessuna donna che ci guardasse, l'avvenire non sembrava avere spazi....poi un giorno venne una specie di commissione, ci fece vestire a festa e ciak una bella foto, ci spiegarono che le foto sarebbero state mandate in Italia con nome e cognome più indirizzo e se qualche italiana fosse stata interessata avrebbe scritto mandando una sua foto...
Ricevetti parecchie lettere con foto, scelsi una ragazza siciliana, mi parve molto bella....risposi e così nel giro di pochi mesi mi trovai sposato per procura, con il vantaggio che nel villaggio dei minatori di diamanti mi dettero, con poco affitto, una casetta in legno con tetto in eternit, tutta dipinta di rosso vivo.
Con una famiglia e qualcuno che ti aspettava la sera le cose migliorarono, fuori coltivammo un giardino, dentro casa mettemmo al mondo tre figli, due maschi ed una femmina,”... quando mi parlò di lei, di sua figlia, vidi che gli brillarono gli occhi, “....pensa...” mi disse “....in questi giorni sta partecipando al concorso di miss nella regione dove abitiamo, è bellissima a preso da me negli occhi e il resto ha il fascino della mamma...vincerà”. Seppi più tardi che era arrivata seconda, ma lui mi scrisse  che era meglio così, non sarebbe scappata come fanno le miss.
Riprese:"Cambiai tanti lavori dopo, passai all'edilizia ed ora ho una piccola ditta che risistema le numerose case in legno ad unico piano disseminate nella città, ancora ora lavoro, ma solo mezza giornata perché le forze cominciano a mancare”.
La notte di natale volle che lo accompagnassi a messa a mezzanotte, vide la chiesa dove aveva fatto il chierichetto tutta illuminata, gli altari in legno restaurati e gli affreschi della vecchia sacrestia riportati al vecchio splendore. Non finiva più di meravigliarsi e si vedevano aprirsi ferite antiche nel suo animo.
I compaesani gli organizzarono una festa alla quale non andai, lo rividi il giorno della partenza, sempre con il suo abito grigio, camicia bianca e cravatta, mi avvicinai e mi abbracciò non senza un pianto, sorrise solo quando gli appuntai all'occhiello della giacca il distintivo della Provincia di Belluno, regalatomi dal presidente di allora De Bona. Continuava a guardarselo e mi disse che ad Adelaide dove abitava ora c'era una comunità di Italiani e lui li avrebbe un po' ingelositi....partì Beppino e non lo rividi più, solo una lettera lunga quattro pagine, sempre su carta a righine azzurre e inchiostro blu scuro.
Seppi che era morto dopo alcuni anni e rimasto in terra australiana.

Cherubino Miana, nato a Voltago il 1944, diplomatosi perito minerario ha seguito lavorativamente cantieri edili. Vive a Voltago, dedicando il proprio tempo a seguire il restauro di opere d'arte nelle varie chiese sparse sul territorio, solo per passione. Come per passione si dedica alla poesia ed alla lettura.

 

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