Il racconto degli studenti di Falcade: "Vaia ci ha cambiato"

Hanno ricordato per il nostro giornale la lunga notte dell'uragano e il lavoro dei giorni successivi, un evento che ha cambiato anche loro

FALCADE

Chiara Sacchet insegna da quest’anno nelle classi quarte e quinte dell’Istituto “De Rossi Follador” di Falcade, formate da studenti del territorio e da altri che soggiornano nel convitto e dove l’intreccio degli sguardi di chi è cresciuto qui e di chi viene da fuori crea spesso un confronto fertile, una voce collettiva sull’adolescenza in montagna.



«Nel percorrere per la prima volta l’Agordina – racconta Chiara Sacchet- ammiravo quella strada tanto amata da caprioli e cervi e pensavo alla profezia delle streghe di Macbeth che avvisano il re che “una foresta si muove” e a Leopardi che, nelle operette morali, dice: “Che immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?”. Riflettevo che la letteratura ci parla e parla di noi. Il dialogo si è poi trasferito nelle discussioni con i miei alunni prima, e negli scritti poi, per diventare “il racconto dei giorni di Vaia”. Le considerazioni su quest’esperienza lasciano spazio a prospettive inedite: sentirsi parte di una comunità, l’orgoglio di aiutare, la felicità nello scoprire di poter fare a meno dei telefoni, la sorpresa di una cena a lume di candela con i propri familiari, l’apprensione per gli altri, vicini e lontani».

Ecco alcune delle testimonianze messe per iscritto dai ragazzi.

Il rifugio sicuro

«Sarà una semplice perturbazione, nulla al di fuori dell’ordinario» dicevano. D’altronde, chi si fida più del meteo? Rispondo io: nessuno. Sabato 27 ottobre iniziavo a vedere che le nuvole correvano in modo anomalo, cioè molto velocemente, si stava anche scurendo il cielo e quella sera iniziò a piovere. In tutto l’Agordino tirava un vento molto forte e una pioggia che batteva come frustate, la luce andava e veniva. C’era molto silenzio. Stavo guardando un film ed improvvisamente è venuta a mancare la corrente, nulla di strano, abitando in montagna questa cosa può succedere frequentemente.



Nemmeno un minuto dopo sul gruppo whatsapp della classe iniziarono ad arrivare mille messaggi per sapere se nelle varie zone c’erano corrente e luce, ma niente da fare, blackout totale, nessuno aveva luce, e da quel che ricordo non passò più di un’ora per restare anche senza linea telefonica. Abitando al di sotto di un bosco si potevano sentire gli alberi che cadevano, il rumore del loro spezzarsi era molto frequente.



Era ora di cena, quindi preparo la tavola e poi mi metto a mangiare assieme ai miei e a mio fratello a lume di candela. Ricordo di aver detto: “Che romantico” e in effetti un po’ lo era. Abbiamo lasciato la casa verso le 19. 30 e abbiamo passato la notte in un piccolo edificio sicuro, verso la parte alta del paese. Facendo il tragitto da casa verso il riparo, avevamo già intravisto che nella piazza del paese l’acqua più o meno ci arrivava alle ginocchia. Siamo rimasti lì tutta la notte, insieme ad altri vicini.

La notte al convitto

Nei lunghissimi giorni di fine ottobre mi sono ritrovato rinchiuso nel convitto di Falcade. Guardavo fuori dalle finestre e sembrava Venezia, con la nebbia fittissima e un odore di legna bruciata inimmaginabile. Non eravamo in tanti. Continuava a piovere, e il vento a soffiare, gli educatori ci avevano tolto la libera uscita perché pioveva troppo, rimanemmo all’interno della struttura. Zero elettricità, zero segnale, zero acqua calda, zero riscaldamento. Il terrore regnava sovrano. Il senso di impotenza di quei momenti è indescrivibile: leggere un libro, farsi una doccia rigenerante, aggiornare la home di Instagram. Il generatore a diesel del convitto riprese a funzionare regolarmente e la carbonara più buona del mondo avvolse le nostre anime. Furono tre giorni di noia e paura.

Tutto finì la sera in cui ci dissero che la mattina seguente saremmo stati scortati dai Carabinieri a Belluno dove non c’era pericolo. Quella mattina aveva smesso di piovere e sembrava tornato tutto normale, almeno finché non partimmo.

La conta dei danni

La mattina seguente quando mi alzai e guardai fuori dalla finestra non credetti ai miei occhi. Una montagna di fango e massi aveva sommerso il paese, mentre l’acqua continuava a scorrere fuori dagli argini. Io sono uscita con il mio cane e siamo andati in giro per le case a dare un saluto alle persone anziane. Nel mio paese in tutto siamo 15 abitanti e la maggior parte sono tutti anziani sopra gli 80 anni. Dopo qualche giorno sono venuti in nostro soccorso i militari con il camion, la ruspa e l’elicottero con i generatori. In quei momenti sembrava di stare in un film con tutti quei soldati d’intorno. Gli alberi rimasti in piedi erano ben pochi. Nessuno è rimasto ferito nel nostro comune, né durante la notte, né durante le operazioni di soccorso.

Siamo riusciti a vedere tutti i danni effettivi della tempesta grazie alle riprese dall’elicottero. A Sottoguda non c’erano né l’acqua né la corrente e nemmeno la rete telefonica. Quella settimana non sapevo se i miei amici stessero bene oppure no, quindi sono rimasta abbastanza in ansia, quando finalmente è tornato il campo è stato un sollievo.

Parte di una comunità

Noi agordini non piangiamo sui problemi, cerchiamo sempre subito di agire, soprattutto per gli altri. Tra gli sguardi di chi raccoglieva le tegole nelle strade, tagliava gli alberi caduti con la motosega e molti altri si percepiva tristezza, ma allo stesso tempo un fuoco dentro, per tornare alla normalità. Essendo una comunità molto forte, molti ci hanno aiutato in questo, anche i più piccoli, solo per esempio portando una bottiglietta d’acqua potabile ai lavoratori.

C’era voglia di riparare l’Agordino. Io e mio fratello e gli altri nostri amici siamo andati a dare una mano a pulire dal fango gli alberghi allagati. Ci svegliavamo e andavamo a dare una mano; le serate le passavamo seduti su dei tavolini in un parchetto a parlare e raccontare, non c’era più energia e i cellulari non si potevano caricare, così siamo ritornati alle abitudini di una volta. In quei momenti tristi non c’era niente di più bello che incrociare gli sguardi riconoscenti dei vecchietti.

Dopo un paio di giorni, tutte le strade di Vallada erano state ripulite e sgomberate. In questi momenti difficili la comunità si è dimostrata molto unita e attiva, inoltre ci sono state importanti dimostrazioni di solidarietà da parte di cittadini e associazioni, anche da regioni lontane dalla nostra.

Che cosa rimane

Questo fenomeno ha davvero cambiato le persone, io personalmente ho iniziato a vivere più intensamente, cioè ad apprezzare di più le cose belle della vita anche se ancora, dopo un anno, ogni volta che sento il vento soffiare un po’ più forte mi torna la paura di quella notte in cui non si sapeva cosa ci sarebbe accaduto. La paura che avevo non la ricordo bene ma so che in parte mi è rimasta dentro, non solo a me ma anche ai miei genitori. Una delle prime volte che vidi piangere mia madre fu proprio questa, come mio padre. E io non ho spiaccicato parola per giorni.

Molti dicono che ora è tutto a posto, ma chi vive qui e sta a contatto con la natura sa che di “a posto” c’è ben poco. La cosa più odiosa è sentirsi dire da chi non l’ha vissuta che siamo stati fortunati che non abbia fatto grandi danni, perché per loro il bosco e la montagna sono un confine e basta.

Penso anche che quest’esperienza sia servita per capire quanto è dura rialzarsi. Quello che serve non è una pacca sulla spalla o un commento accorato, ma soldi e progetti per dare un futuro al Bellunese. Ho la speranza di rivedere il paesaggio come era prima, con i suoi alberi verdi e grandi, i boschi e i paesaggi indimenticabili, ma credo ci voglia tanto tempo. La paura non se ne va, il coraggio cresce, e il ricordo continua a vivere dentro ognuno di noi. Vaia fa parte di noi. —




 

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