«Il territorio è fragile non è possibile costruire ovunque»

Irma Visalli ha elaborato il Piano territoriale della provincia «Bisogna avere il coraggio di cambiare e sapere dire di no»
BELLUNO. «Bisogna avere il coraggio di fare una scelta: abbandonare i vecchi Piani regolatori in favore dei Pat, pianificare il territorio non per mettere vincoli, ma semplicemente perché il nostro è un territorio fragile e in certe zone non si può più costruire. Lo si è fatto anche troppo». La nostra indagine sui cambiamenti climatici e sulle conseguenze che questi portano in una provincia delicata come la nostra, sotto il profilo idrogeologico, continua con Irma Visalli. Architetto, urbanista, è stata lei a preparare il Ptcp, il Piano territoriale di coordinamento provinciale, ai tempi in cui Palazzo Piloni era guidato dalla squadra di Sergio Reolon.


Un piano che conteneva «non vincoli, ma indicazioni per la pianificazione del territorio», spiega la Visalli. «Avrebbe dovuto alimentarsi e completarsi con i nuovi Pat (piani di assetto del territorio) dei Comuni, ma sono pochi quelli che li hanno fatti».


Il Ptcp evidenziava già a suo tempo, dieci anni fa, le aree critiche della nostra provincia, quelle più fragili sotto il profilo idrogeologico?


«Uno dei temi cruciali di quel documento era proprio quello della fragilità del suolo. Avevamo tenuto un approccio precauzionale, perché già allora si poteva evincere che ci sarebbe stato un progressivo movimento dei terreni già soggetti a frana. Avevamo messo delle norme restrittive per le costruzioni, più restrittive rispetto a quello che prevedeva il Piano di assetto idrogeologico, ma siamo stati costretti a modificare quelle norme. Ci fu una grande sollevazione, allora, molti sindaci fecero ricorso. Ci dissero che mettevamo vincoli, che l’edilizia avrebbe subito un colpo durissimo, ma è inutile negarlo: ci sono zone che non sono idonee all’edificazione».


Quali sono, in provincia?


«Le valli sotto i ghiaioni, di cui è ricca la nostra montagna, ma anche molte zone dell’Alpago, Cancia. Sono le prime che mi vengono in mente. Purtroppo per anni si è seguito un malcostume: se il terreno, anche fragile, non si muoveva da tempo, veniva richiesto al Comune di abbassarne il grado di pericolosità. Un’operazione necessaria magari per fare alcuni lavori in una casa, ma si pensa sempre che le cose non debbano succedere... invece non è così. E oggi ci stiamo rendendo conto che pianificare significa guardare oltre, avere una prospettiva, e che una pianificazione fatta anche dicendo alcuni no è l’unica che funziona».


Pensa che in provincia abbiamo un po’ esagerato con il costruito?


«Abbiamo aree industriali in alveo. C’è una zona industriale a Paludi. Pensiamo a Borgo Piave, agli allagamenti che accadono di frequente. Bisogna passare dall’urbanistica alla pianificazione, avere una prospettiva, perché la natura è un sistema complesso».


La pianificazione fatta in passato è stata sbagliata?


«I piani di una volta sono superati. I Piani regolatori sono tutti sovradimensionati, a dimostrazione che la pianificazione basata solo sulla crescita della popolazione è fallita. Io penso servirebbe una riforma della legge nazionale sull’urbanistica, che risale al 1942. Bisognerebbe puntare sul recupero del patrimonio esistente, sulla salvaguardia del territorio, su una visione del territorio che vada oltre i confini comunali quando si tratta di pianificazione. E poi i Comuni dovrebbero fare i Pat, o meglio i Pati (piani di assetto del territorio intercomunali), perché non si può più edificare nella maniera esorbitante prevista dai Piani regolatori degli anni ’60».


Insomma, bisogna iniziare a mettere dei paletti.


«A dire dei “no”. Bisogna avere il coraggio di cambiare. Si mettano poche norme, ma chiare, sul tema della fragilità del suolo, perché abbiamo superato di gran lunga la soglia del limite».


Questo potrebbe essere il punto di partenza, da qui in avanti. Ma con l’esistente come si fa? Ci sono interi paesi costruiti sotto canaloni, in zone a rischio frana.


«Spostare la gente è un problema enorme. Penso andrebbe fatto nelle situazioni davvero pericolose. Nelle rimanenti bisognerebbe usare gli strumenti messi a disposizione dall’ingegneria ambientale per mettere in sicurezza il territorio. E una cosa da fare subito, nei nuovi Pat, è trasferire la cubatura edificabile situata in aree ad elevata pericolosità in zone più sicure».


Si può continuare a vivere in montagna?


«Si può e si deve. La nostra provincia dovrebbe diventare un laboratorio nazionale che dimostri come vivere e progettare in una zona fragile. La tecnologia si è evoluta, ci dice come costruire in zone delicate, nelle quali bisogna essere più bravi a progettare. Ma i bravi professionisti li abbiamo. E vanno anche ripristinate quelle buone pratiche che avevamo un tempo per la cura del territorio».


Su questo siamo un po’ carenti ultimamente.


«Quello del “manutentore” dovrebbe diventare un lavoro. Si aprirebbero anche opportunità di impiego a mio avviso. Quando parlo di pianificazione intendo anche questo: avere una prospettiva, una visione del futuro, che non pensi solo al lasso di tempo contemplato nella vita di un uomo, ma che guardi un po’ più in là».


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