Il vescovo Pante sul monte Kenya per i 50 anni di sacerdozio
LAMON
Ha festeggiato i suoi cinquant’anni di sacerdozio salendo una parte importante del monte Kenya, la seconda montagna più alta dell’Africa con i suoi 5.199 metri.
Monsignor Virgilio Pante, 74 anni compiuti lunedì, vescovo missionario di Maralal, in Kenya, «ha mantenuto la promessa da montanaro, un po’ testardo», racconta Giuseppe Ragogna, giornalista pordenonese che durante un recente viaggio di solidarietà in Kenya ha incontrato il presule lamonese.
Il vescovo Virgilio gli aveva raccontato l’intenzione di festeggiare così il suo mezzo secolo di consacrazione sacerdotale, affrontando con scarponi e determinazione da uomo di montagna la vetta africana. «Arrivo dove posso», aveva raccontato monsignor Pante. E ha mantenuto la promessa, celebrando messa oltre quota 4 mila.
«La meta», racconta Ragogna, autore di un libro i cui proventi sono stati destinati a sostenere le spese di istruzione di bambini kenioti, «ha un significato particolare per un religioso: i kikuyu hanno grande rispetto del Kenya perché ritengono che sia la “montagna di Dio”. Con un gruppo di amici il vescovo ha raggiunto quota quattromila per celebrare una messa. L’obiettivo ci era già stato annunciato durante il nostro incontro a Maralal. Ora la conferma».
Ragogna, già vicedirettore del Messaggero Veneto di Pordenone e ora, da pensionato, impegnato in attività solidaristiche anche internazionali, è rimasto molto colpito dalla figura di monsignor Virgilio.
«In Kenya, tutti conoscono Pante, lo nominano con grande rispetto per coraggio e spiritualità», spiega il giornalista. «È chiamato “the wild bishop”, il vescovo selvaggio, perché si è prodigato, con le buone e le cattive maniere, a mettere pace tra le tribù dell’immensa area semi-desertica del Kenya, un territorio in bilico tra montagne, savane e deserti. Una terra difficile da amministrare per gli stessi governanti. Quando scoppiano le risse, per i magri pascoli e i pochi pozzi d’acqua, anche la polizia se ne sta alla larga. Lui no, ci mette la faccia. Da anni è il tessitore della riconciliazione tra samburu, rendille, turkana, kikuyu, borana. Ha rimesso ordine in un mosaico di etnie».
«Pante è un uomo pragmatico», racconta Ragogna, «con spiccate doti che tendono all’avventura, come gran dei missionari. Incarna fedelmente il carattere forte delle valli bellunesi. È infatti originario di Lamon, il paese dei fagioli. Energia e pace. Per questo ha scelto come stemma per il suo episcopato un leone sdraiato accanto a un agnello, sopra una colomba. Ha voluto disegnare lui il suo simbolo, riprendendolo da un racconto che è solito ricordare: una leonessa ha adottato un cucciolo di antilope abbandonato nella savana. L’ha cresciuto ed è nata una lunga convivenza. Lui ci giura: “È una storia vera”. Quello che conta di più è che ha favorito un po’ di serenità in terre tormentate».
«Da un po’ di anni», ricorda ancora Ragogna, «il vescovo Pante è conosciuto anche per aver regalato a Papa Francesco, di cui è grande estimatore, la sua mitra in pelle di capra: “Bisogna stare tra le gente più umile, non nel chiuso delle canoniche”. Nei giorni scorsi, dall’alto del monte Kenya, ha liberato il suo grido di pace per raggiungere tutte le tribù. Auguri vescovo Pante, buon cammino e arrivederci al prossimo viaggio in Kenya». —
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