«Il virus ci insegna l’importanza della socialità e dell’altruismo»

Giacomo Coppe, “Bocia”, è sopravvissuto all’eccidio del ponte di San FeliceLa nipote ha raccolto messaggi di auguri per lui, che passerà la giornata da solo

BELLUNO

Famigliari, amici e diverse sezioni dell’Anpi tra le quali la bellunese “La Spasema”: tutti uniti per augurare buon 25 aprile a Giacomo Coppe, nome di battaglia “Bocia”, ex partigiano, oggi 93enne, noto per essere scampato all’eccidio di Ponte San Felice il 5 luglio del ’44. Quel giorno morirono dieci suoi compagni; un undicesimo partigiano venne prelevato dal carcere di Baldenich e fucilato sul posto il giorno successivo.

Le decine di videomessaggi di auguri sono state raccolte dalla nipote, Chiara Tonietti, per far sapere al nonno che in tanti gli hanno dedicato un pensiero, con la speranza di potersi riabbracciare quanto prima: «Per noi in famiglia questa è una festa molto importante», spiega la nipote, «e so quanto gli dispiaccia doverla vivere in casa. È commovente vedere in quanti gli abbiano dimostrato affetto».

«È un 25 aprile triste», pensava Giacomo Coppe nell’intervista organizzata pochi giorni fa, ancora ignaro della sorpresa in serbo per lui, «sarà il primo che passerò completamente solo, dopo la scomparsa di mia moglie Ida l’anno scorso. Mi mancherà l’affetto degli amici e dei compagni. Quella che viviamo oggi è una nuova Resistenza, contro un nemico che non vediamo».

Il virus, però, secondo Coppe ci insegna ancora di più l’importanza della socialità e il bisogno di pensare anche agli altri: «Lo stare insieme e l’aiutarsi sono la vita, se ce li tolgono che vita è? Anche questo l’ho imparato facendo il partigiano», spiega il “Bocia”, «perché il fascismo, in fondo, è da sempre dentro di noi, soprattutto al Nord: fin da piccoli ci insegnano ad essere opportunisti e a pensare ai nostri interessi prima che agli altri ed è proprio il corporativismo che sta alla base del fascismo. Ecco allora che per avere un mondo migliore le nostre mamme non dovrebbero insegnarci a “farci furbi”, ma ad apprezzare la socialità, l’altruismo e l’importanza dell’uguaglianza».

Valori che Coppe ha ritrovato spesso durante i tanti anni passati da emigrante, prima in Belgio e poi in Argentina: «Dopo il 25 aprile del ’45 la guerra che avevamo fatto contro Tedeschi e fascisti si è trasformata in guerra contro la fame e la disoccupazione». continua Coppe. «Purtroppo, poi, dall’Argentina sono dovuto scappare per paura che i miei figli diventassero desaparecidos per colpa della dittatura di Videla». Una vita da emigrante lunga vent’anni, raccontata anche in un’intervista a Ferruccio Vendramini, che dal “Bocia” ha raccolto anche i racconti della guerra e del pericolo scampato per un soffio quella notte sul Piave.

QUELLA VOLTA CHE IL TELEGRAFO DIVENNE UNA VIGNA

Dell’episodio a Ponte S. Felice, però, il “Bocia” preferisce non parlare, troppa la tristezza ancora legata alla perdita dei suoi compagni per ripercorrerlo alla vigilia di un giorno di festa. E allora ecco che dalla memoria riaffiora un altro episodio, dalle sfumature certamente più ironiche, che avvenne nell’autunno del 1944: «Con un gruppo di compagni avevamo il compito di interrompere le comunicazioni dei Tedeschi tra Belluno e Feltre», racconta Coppe, «allora la linea correva su dei pali lungo tutta la Sinistra Piave e decidemmo di abbatterne una buona porzione per creare un danno importante all’invasore. Da casa mia ci spostammo a Visome e, mentre uno faceva la guardia con il mitragliatore, io e gli altri cominciammo a tirare giù i grossi pali in legno con l’accetta. I primi furono molto difficili da far cadere, perché si reggevano ancora sugli stessi cavi sospesi, ma dopo un po’ fecero un tonfo tutti assieme e noi fummo presi da un’estasi tale che ci permise di andare avanti spediti addirittura fino alla stretta di San Pellegrino».

«Man mano che i pali cadevano a terra», continua, «con il retro dell’accetta dovevamo rompere gli isolatori in ceramica per strappare i cavi e interrompere la linea. Arrivati quasi alla fine dell’azione ci accorgemmo di camminare sul bagnato, ma non avendo piovuto non capivamo come fosse possibile. Solo una volta esaurita l’adrenalina dell’azione ci rendemmo conto che le schegge di ceramica ci avevano martoriato le gambe, riempiendoci le scarpe di sangue».

Finito di abbattere i pali, però, restava da disfarsi dei tanti metri di cavo rimasti a terra, per rallentare ulteriormente il ripristino della linea ed è qui che la storia prende una svolta quasi comica: «Mi ricordai che mio padre mi aveva chiesto di trovargli dei fili su cui far crescere la vigna che avevamo vicino casa. Beh, oggi non lo so, ma fino a qualche tempo fa le viti che crescevano a Coi de Navasa correvano ancora sui fili di quel vecchio telegrafo». —





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