«Impaurito e equipaggiato male, dovevo fermarlo»

BELLUNO. «Volevo esprimere il mio enorme cordoglio per ciò che è accaduto a Mario Oribelli, in quanto mi sento responsabile almeno in parte della sua scomparsa». Inizia così una lunghissima lettera che L.P. ha inviato al nostro giornale nel giorno dei funerali, celebrati ieri a Lughignano, del postino di 58 anni morto sabato pomeriggio dopo essere caduto dalla cengia di Ball, sul Pelmo.
L'autore dello scritto racconta che anche lui, sabato scorso verso le 8, era partito dalla forcella Staulanza. Dopo aver raggiunto il rifugio Venezia, l'escursionista si era incamminato verso la cengia.
«Dopo una quindicina di minuti incontro Oribelli preceduto da una tedesca, che lui mi dice essere compagna di salita e con cui si sarebbe ritrovato nel caso lui fosse andato avanti e lei no. Di primo acchito anch’io rimango colpito dall’abbigliamento un po’ fuori le righe (canotta e pantaloncini, mentre le calzature non mi parevano inappropriate) ma, considerato il caldo anomalo e la consuetudine di incontrare gente vestita alla bene e meglio ma estremamente abile, non mi stupisco più di tanto», scrive il lettore, «non noto nel fisico di Oribelli carenze particolari che precludano l’ascesa al monte. Quello che invece mi salta subito all’occhio è la progressione particolarmente lenta, dettata dalle evidenti non eccelse doti tecniche, dalla paura e, molto probabilmente, dalla limitata esperienza in ambienti simili a quello. In quel momento ho commesso un errore, un errore idiota per chi ha una non proprio breve esperienza in montagna e di conseguenza ne conosce i rischi: Oribelli era da solo, nel verso di salita in quel tratto ha trovato solo me e io l’ho aiutato quando non avrei dovuto, perché non ho pensato che al ritorno sarebbe potuto essere nuovamente solo».
Questo il grande cruccio dell'escursionista: «Mi ha pregato di aiutarlo chiedendomi di attenderlo sino al termine del tratto esposto, di cui ignorava la lunghezza. L’ho assistito tenendogli la grossa macchina fotografica che portava a tracolla e indicandogli dove mettere i piedi. Mi sono fatto scioccamente convincere, condizionato dalla voce impaurita e al tempo stesso cortese della persona; avrei dovuto farmi carico di lui sino al termine o più correttamente intimargli di tornare sui suoi passi, anche a costo di impormi con scortesia, ma non l’ho fatto».
Continua la lettera: «Verso le tre e mezza, durante la discesa, incrocio nuovamente Oribelli che doveva ancora arrivare in vetta. Riconosciuto, lo saluto e proseguo. Considerata l’andatura con cui era arrivato sin lì, non deve aver raggiunto la cima prima delle 4.15-4.30 e, calcolando un tempo anche limitato per una sosta, non dev’essere arrivato in cengia prima delle 7.30-8 di sera. Molto probabilmente spossato, con il ridursi della visibilità, trovandosi solo e ancor più impaurito dell’andata, deve aver commesso un’imprudenza o deve essere stato vittima di un mancamento. Non so come sia andata veramente, se sia precipitato in un punto relativamente facile e poco esposto o non sia invece riuscito a oltrepassare con le proprie forze uno dei due passaggi chiave. In questo secondo caso non potrei ignorare la mia parte di responsabilità e per questo vorrei porgere le mie scuse ai suoi cari». Durante i funerali di ieri il sacerdote ha ricordato l'animo buono di Oribelli, ora libero di esplorare le vette del cielo.
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