In Duomo l’ultimo saluto a De Marchi

Da Polenza: «Oltre che alpinista era anche un medico altruista». Le offerte saranno devolute dalla famiglia ad Emergency o al Cnsas bellunese
Giuliano De Marchi
Giuliano De Marchi
BELLUNO
. Il mondo della montagna ha invaso ieri pomeriggio il Duomo di Belluno, per i funerali di Giuliano De Marchi. La chiesa era già gremita di persone mezz’ora prima che iniziasse il rito funebre per l’ultimo saluto al medico-alpinista bellunese che ha perso la vita alcuni giorni fa durante un’escursione sull’Antelao.


All’inizio della cerimonia anche le tre navate della cattedrale erano affollate e 200 persone hanno dovuto rimanere fuori della chiesa. Oltre ai familiari c’erano gli amici, i colleghi dell’Ospedale di Belluno, i grandi alpinisti che con lui avevano scalato le vette più alte, uomini del Soccorso alpino, accademici del Cai, pazienti che lo avevano conosciuto. Ma anche coloro che, pur non conoscendolo personalmente, hanno voluto rendergli omaggio.

All’entrata del feretro, portato dai volontari del Soccorso alpino, il Coro del Cai ha intonato un struggente “Lassù sulle montagne”, nella commozione generale. «Dobbiamo imparare a tacere dalle troppe parole vane che di frequente pronunciamo», ha insistito più volte don Rinaldo Ottone, parroco di Levego-Sagrogna, durante l’omelia funebre. «Oggi diciamo tante cose che non sentiamo, una malattia che ci disconnette dall’anima. Tutti parliamo di tutto, senza alcuna competenza specifica. E questo credo sia anche la ragione che spinge qualcuno alla ricerca della solitudine. Come quella che si prova in montagna da soli, ad ascoltare le parole del vento come piaceva a Giuliano».


E’ un accorato elogio alla montagna, alla solitudine e al silenzio, “rotto solo dalla caduta di una roccia immobile da millenni”, quello pronunciato del sacerdote-alpinista, scampato anni fa alla stessa sorte di Giuliano, in una caduta sulla Gusèla del Vescovà. E dunque egli parla nella duplice veste di ministro della Chiesa e in rappresentanza di coloro che in montagna sono caduti. Un bisogno di silenzio e solitudine che ripete più volte, raccomandando anche di non cedere agli applausi. Ma tant’è, forse il bisogno liberatorio dalla tensione accumulata è più forte e sfocia nell’applauso al passaggio finale del feretro. «Vanno in montagna da soli perché da soli si sente di più», afferma don Ottone. «Giuliano era un uomo che nel momento del pericolo sorprendeva: quando tutti tremavano lui sfoderava una calma e un raziocinio incomprensibile, che gli ha permesso di uscire da circostanze difficili. Ma non pensiamo che questa lucidità significhi freddezza. Al contrario, è la dimostrazione di una sensibilità nell’intuire i rischi».


La scoperta della montagna e la solitudine dei ghiacciai nelle parole del sacerdote diventano l’allegoria per spiegare la scoperta della nostra anima, il profondo del nostro cuore. Parla quindi della montagna di Dio, dove salgono i miti, dove sale chi ha fame di giustizia e gli operatori di pace. «Cerchiamo di salire questa montagna e impariamo a parlare un po’ meno», sottolinea nuovamente don Rinaldo Ottone, «affinché la montagna possa cambiare il nostro modo di essere attraverso una scalata indimenticabile». Alla fine del rito c’è stata la testimonianza toccante del suo compagno di cordata, l’alpinista Fausto De Stefani: «Siamo tutti debitori nei confronti di Giuliano, per la sua sobrietà. Ed io più di tutti, se sono qui oggi», alludendo al prezioso contributo di Giuliano De Marchi, che gli salvò la vita. Testimonianze anche di amici e colleghi di lavoro che hanno ritratto un uomo che amava la natura, il lavoro e soprattutto la montagna.

Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi