Inchiesta reperti: lettera in difesa degli indagati

Chiusa l'indagine della procura per la detenzione di oggetti: in quattro ora rischiano il processo
Scavi archeologici
Scavi archeologici
BELLUNO.
Il mondo dell'archeologia in difesa di due appassionati del settore, molto competenti e collaboratori della Sovrintendenza, finiti sotto inchiesta per violazione del decreto Urbani e detenzione di materiale archeologico. Una lettera è stata inviata al sovrintendente archeologico del Veneto, Vincenzo Tinè: si stigmatizza il comportamento considerato «terroristico» con cui è arrivata la segnalazione.  Per conoscenza, la missiva è stata spedita all'ispettrice Giovanna Gangemi, a Beni culturali, Regione, Sovrintendenze venete e friulane, gruppi archeologici del Veneto, e associazioni museali (compresi gli Amici del museo di Belluno e di Selva). Il sostegno è per Aldo Villabruna e Carlo Mondini. A firmarla, Giovanni Fava, Antonio Valenti, Mario Da Re, Luca Tonon, Paolo Fasan, Giorgio de Bastiani, Bruno Costa, Pio De Nardi.  I due esperti bellunesi sono sotto inchiesta con altri due appassionati, Paolo Viel e Corrado Chierzi, per una presunta detenzione di quel che la procura considera reperti archeologici. L'indagine era partita l'anno scorso, ma aveva un altro obiettivo: le perquisizioni domiciliari dei carabinieri del nucleo tutela patrimonio culturale miravano a trovare reperti oggetto di un presunto «saccheggio» della necropoli di Valara, vicino a Bes, dove furono depredate una quindicina di tombe dell'età pre-romana.  «Nelle case dei nostri assistiti non è stato trovato nulla che avesse relazione con tutto questo», spiegano i difensori Fabrizio Righes e Sandro De Vecchi. «Non trovando nulla sono stati sequestrati oggetti che vengono ereditati dai parenti e la cui origine archeologica è tutta da dimostrare. E poi un bene come si fa a dire che è archeologico?».  Dunque, le perquisizioni ordinate dal sostituto Massimo De Bortoli, secondo i difensori non avrebbero portato elementi in relazione alla necropoli, ma i carabinieri di Venezia avrebbero comunque sequestrato oggettistica «datata»: una collezione di fossili ereditata dal padre, un pezzo di coltello o una chiave.  La contestazione per i quattro è di aver violato due articoli del decreto legislativo del 22 gennaio 2004 (decreto Urbani). Tutto ciò che ha rilevanza archeologica è di proprietà dello Stato: chi trova deve consegnare. A meno che dimostri che il bene è «privato».  Sembra che non siano stati trovati reperti della necropoli di Valara, sotto inchiesta ci sono comunque finiti per questi altri oggetti «di famiglia», a sentire le difese. Per la legge è comunque una detenzione di reperti archeologici.  «Sono stati imputati dalla Sovrintendenza di aver portato via qualcosa da uno scavo ritenuto clandestino», tuona l'avvocato Righes, «ma queste sono persone esperte e hanno addirittura collaborato con la Sovrintendenza, consegnando sempre quello che trovavano al museo. Una cosa inaudita».  Un'indagine per la quale sono già arrivati gli avvisi di chiusura inchiesta: dunque il pubblico ministero si prepara a chiedere i rinvii a giudizio per i quattro indagati.  «Va dimostrato il fatto che siano reperti archeologici», continua Righes. «Io chiederò che siano nominati degli esperti per vedere che valenza effettiva hanno quegli oggetti. E non dimentichiamoci che in Parlamento giace ancora una norma (che avrebbe attuato una sorta di sanatoria ndr) in base alla quale un bene non di proprietà poteva restare "privato" pagando». Norma non ancora approvata.  La data del processo non è stata ancora fissata.

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