Inverni in montagna, quando nelle camere si formava la brina

Gli anziani di Campolongo hanno vissuto stagioni rigidissime. Nel 1930 si arrivò a -37, ma si lavorava comunque all’aperto

SANTO STEFANO. Loro il Burian non lo temono proprio, e guardano al grande gelo in arrivo con un mezzo sorriso. Sono gli anziani del paese di Campolongo, quelli che hanno visto in gioventù brillare di notte i muri delle camere da letto per la brina che vi restava attaccata fino a primavera. Quelli che non si stupivano più di tanto nel vedere «la pipì che si ghiacciava nel vaso da notte». Quelli abituati a lavorare nei boschi, anche a mani nude, con venti gradi sotto zero, o ad attraversare con le slitte (liode in dialetto) il letto del fiume Piave ricoperto dal ghiaccio. Altri tempi, altre tempre, insomma.

«L’anno più freddo che mi ricordi», racconta Elio De Bernardin, boscaiolo e adesso sacrestano a Campolongo di Cadore, «è quello del 1956. Lavoravo nei boschi a Federavecchia, nella zona di Misurina, e si toccarono i -33 gradi. Un inverno pessimo, ma si lavorava comunque e si dormiva in un fienile riscaldato a legna» .

Elio è nato l’11 novembre 1927 e non si scompone più di tanto dinanzi alle previsioni allarmanti di questi giorni. «Adesso tutto è diverso, le case sono ben riscaldate; una volta la vita era molto più dura, ma si andava avanti lo stesso. Ricordo che nel 1949 si attraversava il Piave con le slitte cariche di legno, perché era tutto coperto dal ghiaccio».

«No, non abbiamo di certo paura del freddo», gli fa eco la moglie Girolama De Zordo, classe 1935, originaria di Auronzo. «Piuttosto ci preoccupa il ghiaccio sulle strade e sui marciapiedi, perché ad una certa età cadere può essere molto pericoloso; ma se arrivano due o tre giorni di freddo intenso, sappiamo bene come reagire». E rammenta che da ragazza «si andava a letto con le bottiglie di acqua calda, per tenerci caldi sotto le coperte». Elio e Girolama si sono sposati proprio nel 1956, l’anno del grande freddo.

«Mi ricordo che da ragazzo», prosegue Ranieri Pomarè, classe 1951, «le lenzuola si ghiacciavano all’altezza della bocca. Il fiato si congelava all’istante dal freddo che faceva di notte. Ma nemmeno il grande freddo ci impediva di giocare all’aperto con le poche cose che avevamo. Con gli scarpet, fatti con pezzi di stoffa sovrapposti e cuciti insieme fino a realizzare una specie di suola, si slittava sul ghiaccio».

«Indosso avevamo qualche maglione di lana e una giacchetta, ma solo i più ricchi si potevano permettere guanti, sciarpe e berretti, gli altri stavano a mani e testa nude», aggiunge. «Non è un caso se la valle dentro la Galleria Comelico viene chiamata ancora oggi la piccola Siberia; per le basse temperature e perché in inverno il sole lo si vede non più di un’ora al giorno».

Accanto a Ranieri c’è il padre Aurelio, 102 anni (è nato il 19 aprile 1916). «L’anno più freddo che ricordo è stato il 1930», racconta. «Nel mese di gennaio si arrivò anche a 37 gradi sotto zero. Tanto che in paese qui a Campolongo ci dicevamo: “arriverà finalmente il 1931!”, con la speranza che sarebbe stato migliore. Ma anche nel 1956 si arrivò a -30 gradi qui».

Aurelio ha lavorato molto all’estero, in Svizzera, poi è tornato in Italia dopo la seconda guerra mondiale (è stato anche decorato al valor militare), e ha lavorato in un’impresa boschiva col padre, poi a Cortina come capocantiere. «Eravamo undici fratelli e si dormiva tutti insieme sotto al fogher, per tenerci più caldi. I giacigli erano di paglia».

«Io ricordo i -25 gradi, nel 1940», riprende Sirena (detta Ernesta) De Bernardin vedova Gatti, classe 1930, «ma si andava fuori lo stesso, figurarsi se un po’ di freddo ci poteva fermare. Avevamo le calze fatte con la lana di pecora, che pungevano la pelle ma tenevano ben caldo, poi sciarpe, berretti a zoccoli di legno e tutti fuori a slittare. C’è stato un anno che, per uscire di casa, bisognò scavare una galleria nella neve, da quanta ne era venuta; ed allora tutti a spalare e poi a buttare la neve nel Piave dal ponte, mentre le frese di allora erano trainate da cavalli per pulire un po’ le strade. Ma era un freddo asciutto, non dava troppo fastidio».

«In casa tutto ruotava intorno alla cucina economica a legna e prima ancora al focolare», continua. «Nelle camere da letto c’era una brina che ricopriva i muri fino a primavera e nel letto per scaldarci si mettevano i mattoni, tenuti tutto il giorno nel forno. Ci si alzava insomma ben coloriti. Ricordo che al cimitero scavavano per tempo le fosse, prima che la terra ghiacciasse, e poi le ricoprivano di assi di legno, se no non sarebbe stato possibile dare sepoltura a chi moriva in inverno».

«Eh sì. Era talmente tanto freddo che la pipì gelava immediatamente nel vaso da notte», rammenta Ermanno Pomarè, anche lui del 1930, artigiano attivo nel settore dell’idraulica e della lavorazione del ferro, «e arrivavano nevicate improvvise e copiose, tanto che una sera di metà Quaresima, avrò avuto vent’anni, siamo andati a ballare in un locale e quando siamo usciti c’era già mezzo metro di neve. E pensare che eravamo usciti di casa con le scarpe da ballo!».

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