La Marcia della Pace è un inno all’accoglienza
Sessanta persone hanno sfilato per piazza dei Martiri e piazza Duomo «Dobbiamo lavorare per aiutare il più possibile queste persone che soffrono»
BELLUNO. Accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Attorno a questi quattro punti si è sviluppato il discorso di Papa Francesco in occasione della 51ª Giornata della Pace, dedicata ai migranti e ai rifugiati. Sugli stessi concetti si sono espressi gli oratori delle varie realtà associative e religiose del territorio che hanno risposto all’appello per la Marcia della Pace di Belluno.
«Come ha detto il Papa dobbiamo lavorare per aiutare il più possibile questi uomini e queste donne che vivono le difficoltà della ricerca della pace», ha spiegato Francesco D’Alfonso, diacono di Belluno-Feltre, mentre guidava i circa sessanta partecipanti alla marcia attraverso piazza dei Martiri e piazza Duomo, fino alla cattedrale, dove Monsignor Renato Marangoni ha tenuto un breve discorso augurando un 2018 in sintonia con lo spirito della marcia.
«Quando sento che i migranti studiano l’italiano», ha spiegato il Vescovo di Belluno-Feltre, «penso che anche noi dovremmo ristudiarlo, ma nel suo significato più profondo: quello della lingua che ci ha unito, che ci ha fatto conoscere e che è nata dall’unione di tante culture».
Tra le comunità religiose presenti alla marcia anche quella islamica, che per il secondo anno ha voluto portare il proprio sostegno all’iniziativa. «Se vogliamo la pace dobbiamo lavorare sulla giustizia», ha detto al microfono Assia Belhadj, mediatrice culturale indipendente di origine algerina, da sempre attiva nel bellunese per promuovere eventi di scambio culturale. «Per me è importante essere presenti per dare un segnale di vicinanza e fratellanza. Sono algerina ma mi sento anche italiana».
Come facilmente prevedibile, uno dei temi caldi toccati dai vari oratori è stato il diritto alla cittadinanza, che non è stato discusso, malgrado fosse in programma, prima dello scioglimento delle Camere. «Forse un documento italiano non cambia radicalmente la mia vita», continua Assia, «ma è giusto che chi vive qui da tanti anni possa averlo».
Sulla stessa linea di pensiero è anche Anissé, congolese in Italia da oltre vent’anni: «È da tanto che vivo e lavoro qui, mi sento un bellunese a tutti gli effetti».
Tra gli interventi durante le soste verso il Duomo c’è stato spazio anche per la storia di Abdullai, 35 anni, figlio di una famiglia di dissidenti politici del Togo sterminata dalle milizie del dittatore Gnassingbé e fuggito attraverso il Benin e il Niger fino all’inferno del deserto libico, dove ha subito torture e vessazioni di ogni genere prima di riuscire a imbarcarsi, come tanti, su un barcone per l’Italia. Abdullai ora studia l’italiano alla scuola Penny Wirton di Limana e a presentarlo è una delle sue insegnanti, Elisa Di Benedetto, che ha raccontato come questi ragazzi vedano in Belluno un luogo di pace dopo tanta sofferenza e quanto sia necessario cominciare a considerarli esseri umani e non etichettarli come “profughi”, “migranti” o “rifugiati” per poter abbattere i muri e le ostilità che spesso minano i rapporti con gli stranieri.
Su questo tema si è espresso anche l’assessore Marco Perale che ha ricordato come le due piazze attraversate dalla cerimonia siano state un luogo di guerra meno di cento anni fa: «Non dobbiamo dimenticare che anche noi avevamo la guerra in casa e che gli orrori raccontati da queste persone ci riguardano più da vicino di quanto pensiamo».
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