La montagna verso l'abbandono: il caso Belluno

Abitanti sempre più vecchi, servizi essenziali smantellati, niente fondi strutturali, infrastrutture inadeguate, economia in ginocchio: inchiesta sullo spopolamento

BELLUNO. È una soglia prima di tutto psicologica. Mai, negli ultimi 15 anni, si era scesi sotto quota 209 mila abitanti. Figurarsi balzare direttamente a quota 207.894. Tanti sono i residenti della provincia di Belluno secondo le ultime rilevazioni pubblicate sul Servizio Sistemi Informativi dell’ente provinciale. A fine 2014 il calo, rispetto al 2013, è di 1.536 residenti, pari allo 0.73% nel giro di un anno.

La provincia di Belluno ha il doppio dello spopolamento rispetto alle altre province montane: qui siamo all'11 per cento, altrove attorno al 5 per cento: questo nostro dossier sullo spopolamento della montagna bellunese intende fotografare la situazione, analizzare le cause e cercare possibili rimedi. Qui troverete una serie di spunti, nei link correlati potrete approfondire i singoli argomenti.

Il 2014 segna il punto più basso per la popolazione bellunese negli ultimi 15 anni. Il numero di residenti scende in modo costante dal 2008, quando si toccò quota 212.355. Fu il picco di una tendenza iniziata qualche anno prima che vide salire in modo altalenante il numero dei residenti. Fino ad una nuova discesa che ha subito una breve battuta di arresto nel 2013, quando la popolazione risalì di alcune decine di unità passando dai 209.364 abitanti del 2012 ai 209.430 del 2013. Una speranza che ha lasciato il posto ad un nuovo calo di oltre 1.500 residenti.

CHI VIVE IN PROVINCIA. Le donne mantengono il loro primato: sono il 51.8% della popolazione bellunese, un dato simile a quello degli anni precedenti. Le donne sono anche mediamente più longeve. Le bellunesi che superano i 75 anni di età sono 16.503, quasi il doppio dei loro coetanei di sesso maschile, fermi a quota 9.438.

Hanno già spento cento candeline 93 persone, di cui 78 femmine e 15 maschi. La popolazione considerata “anziana”, cioè che ha superato la soglia dei 65 anni, è circa un quarto di quella residente: gli over 65 sono 51.893. Gli under 14 sono 25.551 e in questi rientrano anche i 1.417 nuovi nati del 2014. Un numero in costante diminuzione anno dopo anno. Appena tre anni prima, nel 2011, i nati erano stati 1.658. Il saldo naturale, cioè la differenza tra i nati vivi e i decessi rimane negativo (-1.609). E a questo si aggiungono anche le migrazioni.

INFOGRAFICA. Sposta il mouse sulla cartina per visualizzare le cifre

L’INDICE DI VECCHIAIA. Lo strumento che analizza il rapporto tra popolazione anziana e giovane presenta a Belluno un indice è di 203,1 (se si supera il 100 significa che i soggetti anziani sono in numero maggiore rispetto a quelli giovani) e la crescita di questo numero sembra essere una tendenza consolidata: prendendo in considerazione gli ultimi 15 anni bisogna risalire al 2002 per trovare l’indice più basso che, comunque, era di 169.4.

LE AREE PIU’ COLPITE. Il dato complessivo mostra una montagna sempre più spopolata e sempre più anziana. Ma anche in provincia di Belluno ci sono delle differenze sensibili. Soffermarsi sulle Unioni montane può aiutare a comprendere come il fenomeno interessi in particolar modo le terre alte della provincia.

Partiamo dall’Um del capoluogo e che comprende anche Ponte nelle Alpi. Dopo aver visto negli ultimi anni una tendenza positiva la popolazione torna a scendere con un calo del 0.80%. Anche la Valbelluna scende (per la prima volta in 15 anni) ma si tratta di un calo di appena 0.40%. Simile, a dire il vero, a quello del Comelico-Sappada che conta pochi abitanti ma sostanzialmente stabili. Leggermente peggiore il dato della Valle del Boite, -0.70% mentre l’Alpago si ferma a -0.60%.

Nell’Um Feltrina, la più corposa della provincia con oltre 56 mila abitanti, il calo è stato dello 0.52%. Le situazioni più delicate in provincia si registrano nelle Unioni montane Cadore Longaronese Zoldo (-1.5%), Agordina e Centro Cadore (-1.2%) che vedono scendere i loro abitanti in percentuale superiore rispetto alle altre.

GLI STRANIERI. Lo spopolamento del Bellunese passa anche dagli stranieri: per la prima volta il numero dei residenti arrivati da fuori confine è in calo rispetto ad un trend che li aveva visti aumentare negli ultimi anni. Mediamente più giovani della popolazione bellunese e provenienti in prevalenza da Romania, Marocco e Ucraina, alla fine del 2014 gli stranieri residenti in provincia di Belluno erano 12.956 pari al 6.2% della popolazione residente.

TREND IN DISCESA. Nel 2013 il numero degli stranieri residenti aveva superato quota 13 mila, arrivando per la precisione a 13.326 persone (6.4% della popolazione). Il calo è stato del 2.78% rispetto al passato, indice che lo spopolamento non è un problema solo dei bellunesi. Negli ultimi cinque anni infatti la popolazione straniera non aveva smesso di crescere, passando dalle 12.179 persone del 2009 (5.8%) al superamento del muro dei 13 mila. Fino a quest’anno, quando il trend si è fermato. Bisognerà aspettare i prossimi anni per capire se siamo di fronte ad un’inversione di tendenza duratura.

SONO PIU’ GIOVANI. Gli stranieri residenti nel Bellunese contribuiscono a “ringiovanire” un territorio altrimenti caratterizzato da una popolazione sempre più anziana. L’età media degli stranieri è di 34 anni, ben 13 anni in meno rispetto alla media bellunese.

Un cittadino straniero su cinque è minorenne. Le persone in età da lavoro sono quasi i tre quarti della popolazione: per la precisione 38.96% i giovani nella fascia 18-39 anni, 35.96% gli adulti 40-64 anni. Pochi gli ultrasessantacinquenni. Una popolazione in età da lavoro, quindi, e per lo più femminile: le donne sono il 57.42%, un numero in linea con la tendenza regionale e italiana, anche se tra gli stranieri la differenza è più marcata.

LE PROVENIENZE. Romania, Marocco, Ucraina. Questi paesi più presenti in provincia di Belluno. I romeni sono 1.886, seguiti a poca distanza dai marocchini (1.667) e dagli ucraini (1.401). Seguono, sempre in ordine di popolosità, Albania, Cina, Macedonia, Moldavia, Kosovo, Croazia e Bosnia. Oltre il 65% della popolazione straniera arriva dal continente europeo ma gli extracomunitari sono il 76%.

LE DESTINAZIONI. Basso Feltrino e Cadore: questi i luoghi dove gli stranieri sono, in misura percentuale, più presenti. Belluno è la città con la concentrazione maggiore (2.519 persone) ma se si guarda la percentuale rispetto ai residenti il podio va ad Alano che, con 472 stranieri, ha il 16.5% di stranieri sul totale della popolazione.

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Numeri analoghi per Quero Vas (14.1%). Percentuali oltre il 10% anche in Cadore ed in particolar modo a Ospitale (14.2%), Lozzo (12.2%) e Perarolo (11.1%). Il numero di residenti, però, è decisamente più basso tanto che gli stranieri effettivamente residenti sono appena 42 ad Ospitale, 175 a Lozzo e 42 a Perarolo. A Farra d’Alpago gli stranieri sono 303, pari all’11.4% della popolazione. Nei piccoli Comuni le percentuali rasentano lo zero. Succede a Lorenzago di Cadore dove gli stranieri, tutte donne, sono appena quattro, cioè lo 0.7% della popolazione.

Lo spopolamento  dipende da numerosi fattori: il calo della natalità, la fuga dei giovani attratti da contesti in cui realizzarsi professionalmente, la difficoltà di vivere in una terra in cui spostarsi richiede tempi decisamente più lunghi (e difficoltosi) rispetto alla pianura. «Il dato è preoccupante, perché la nostra provincia perdeva in media 860 persone l'anno. Ora siamo arrivati a superare le mille», commenta il sociologo Diego Cason. «Se poi consideriamo il numero degli stranieri presenti nel nostro territorio, possiamo tranquillamente dire che la popolazione è scesa sotto le 200 mila unità».

Sono molti i fattori che contribuiscono allo spopolamento. In questo specchietto riassuntivo ne elenchiamo alcuni, che saranno poi diffusamente affrontati uno ad uno in questa inchiesta

I MANCATI AIUTI. «La montagna si spopola perché manca attrattività. E la formula per renderla attrattiva è investire sul turismo», dice il presidente di Confcommercio Paolo Doglioni. «Perché nelle vicine province autonome crescono, anche come popolazione (i dati dicono +2,3% Trento, +2,7% Bolzano, ndr)? Perché il turismo viene aiutato di più. A caduta poi crescono il mondo del commercio, dell'artigianato, l'edilizia». Per quanto riguarda i piccoli negozi, mondo che Doglioni rappresenta, la soluzione è una tassazione particolare, agevolata, che tenga conto delle difficoltà di fare impresa in montagna, «come diceva Carlo Terribile».

LE DIVISIONI. «Anche le nostre continue divisioni sono un problema», aggiunge il presidente di Confartigianato Giacomo Deon. «Già abbiamo infrastrutture carenti, siamo privi di banda larga in mezza provincia, in più ci dividiamo. Lo diciamo da anni quali sono i problemi, non li risolviamo perché non riusciamo a fare massa critica». Pensiero condiviso da Doglioni. Mentre Barbini ritiene «pericoloso e riduttivo» illudersi che il trasferimento di competenze da Venezia sia la panacea di tutti i mali, senza risorse aggiuntive con cui gestirle.

IL CIRCOLO VIZIOSO. Se gli abitanti sono pochi, si tagliano i servizi. Ma con pochi servizi, la gente se ne va. È un circolo vizioso quello che si sta stringendo attorno alla montagna, e più che abbracciarla la sta strangolando. Alla montagna servono risorse. Senza denari da investire per risolvere tutte le criticità di un territorio che continua a perdere popolazione, il futuro non può che essere a tinte fosche.

Negli ultimi anni hanno chiuso 700 negozi. I servizi, come le poste e le banche, stanno abbandonando la montagna. Sono crollati gli iscritti alle scuole elementari e agli asili e numerose stalle sono sull'orlo del baratro a causa della crisi del latte. Una fotografia impietosa.

SANITA' PUBBLICA. «Il fatto fondamentale che si registra nell’Agordino, in questi ultimi vent’anni, è il depotenziamento del nostro ospedale: un tempo era per acuti H24, ora le prestazioni si fanno sempre più in elezione, cioè solo su programmazione».

È rammaricato, ma intenzionato a non mollare Sisto Da Roit, sindaco di Agordo, che racconta il declino della sanità della vallata agordina: «Reparti sono stati trasformati in week surgery, primariati sono spariti, svariate attività ora sono fatte in tandem con Belluno o con Pieve di Cadore. E cosa dire della chiusura di Pediatria? Ci avevano promesso che sarebbe subentrato un servizio di astanteria e un ambulatorio pediatrico al Pronto soccorso, ma non abbiamo ancora visto alcunché. E intanto la Val Cordevole si trova senza un pediatra di libera scelta proprio».

«Potremmo farci una ragione del depotenziamento dell’ospedale se i servizi funzionassero», dice Da Roit. «Abbiamo settori in emergenza, come quelli che riguardano ragazzi e famiglia, il Serd e il dipartimento di salute mentale. C’è necessità di avere una rete di servizi che non costringano le persone a fare tanti chilometri per trovare una risposta ai loro bisogni», conclude il primo cittadino. «Resta la questione delle risorse da stanziare sul sociale, che sta mettendo a dura prova i bilanci comunali».

Approfondisci: lo smantellamento della sanità pubblica

SCUOLE E ASILI. Duecentotrentaquattro alunni in meno all’infanzia e 64 alle primarie: i dati delle iscrizioni nelle prime classi sono allarmanti. E mancano ancora i numeri delle medie e delle superiori. Le informazioni arrivano dalla direzione dell’Ufficio scolastico regionale. Da quanto è emerso, a livello veneto i numeri sono preoccupanti: 1.882 bambini in meno all’asilo, 1.333 alle elementari. Un crollo di iscrizioni che lascia esterefatte le parti sociali, che non sanno proprio a cosa addebitare questa situazione.

E a Belluno lanciano l’allarme: «Se questo trend in discesa si confermerà anche i prossimi anni, a farne le spese saranno le scuole di alta montagna, molte delle quali saranno costrette a chiudere i battenti».

SCUOLE D’INFANZIA. Il calo è stato drastico e preoccupante. Nell’anno scolastico 2013-2014 i bambini iscritti alla scuola dell’infanzia erano 3.135, l’anno seguente sono passati a 3.043, per scendere ulteriormente quest’anno a quota 3.004. E il prossimo anno scenderanno ancora, portandosi a quota 2.770.

SCUOLE PRIMARIE. Per quanto riguarda la scuola elementare, nel 2013-2014 gli iscritti complessivi erano 8.406, sono scesi a 8.332 l’anno successivo, chiudendo a quota 8.237 quest’anno. Per il prossimo le previsioni parlano di 8.173.

LE PLURICLASSI. Negli ultimi quattro anni, tra scuola dell’infanzia e primaria, in provincia di Belluno sono stati persi complessivamente 600 alunni. La flessione, iniziata diversi anni fa, ha portato pian piano a una riorganizzazione delle istituzioni scolastiche. Nel comune capoluogo, solo per fare un esempio, sono stati costituiti tre istituti comprensivi, mentre in giro per la provincia quest’anno si sono avute moltissime pluriclassi, circa una ventina. Un dato che non era mai stato raggiunto prima e che porta con sè tutte le problematiche a livello di istruzione.

BENEDETTI FIGLI. Questa flessione così importante è da riportare a due aspetti: il primo è la scarsa natalità della provincia di Belluno, che sta portando a una diminuzione costante dei residenti; il secondo riguarda il calo della presenza degli stranieri. Ma per i sindacati a queste due cause, se ne potrebbe aggiungere una terza, soprattutto per quanto riguarda la scuola dell’infanzia.

«In molti casi i genitori, soprattutto per motivi economici, preferiscono tenere i figli a casa, risparmiando così la spesa dell’asilo, che in questi momenti di crisi non è da poco», dicono Lorella Benvegnù della Cisl Scuola, Milena De Carlo dello Snals e Livio D’Agostino della Gilda.

Taibon Agordino febbraio 2005, scuole.
Taibon Agordino febbraio 2005, scuole.

I sindacati non nascondono la loro preoccupazione per il futuro della provincia. «Se il calo dei residenti dovesse continuare, si dovranno chiudere le piccole scuole di montagna», dice De Carlo. «Di fronte allo spopolamento di questo territorio, si andrà a una riduzione dei servizi. E tra questi rientra anche la scuola. E senza servizi, le persone si sposteranno ancor di più verso la pianura».

E con la soppressione di classi e la chiusura di plessi scolastici, a rimetterci saranno anche i docenti: «I posti di lavoro caleranno ulteriormente», concludono i sindacalisti.

POSTE E BANCHE ADDIO. Nel giro di una decina di anni sono stati chiusi una ventina di uffici postali e oggi trentacinque, sul centinaio rimasto, apre a giorni alterni. A ciò va aggiunto il fatto che anche la corrispondenza viene ormai consegnata a giorni alterni, in tutta la provincia, e ci sono interi paesi (o frazioni come Levego nel capoluogo) dove il postino non si è visto per giorni.

Non va meglio se si guarda agli sportelli bancari, altro servizio che sta pian piano abbandonando la montagna. A ottobre dello scorso anno Unicredit ha chiuso sei sportelli in montagna, a Lorenzago, Vigo, Lozzo, San Pietro di Cadore, Sovramonte, San Gregorio nelle Alpi, oltre a quello all'interno dell'ospedale san Martino di Belluno. Ma se a Lozzo c'è la filiale di un'altra banca e a Vigo c'è un postamat da quale si possono prelevare contanti, a Lorenzago non è rimasto nulla. Residenti e turisti per avere dei contanti devono oltrepassare i confini comunali.

I DISAGI. «Non si è tenuta in considerazione la difficoltà del nostro territorio», spiega con rammarico il sindaco, Mario Tremonti. «Non avere un bancomat operativo è un disagio per i residenti ma anche per i turisti, perché si tende a non andare in vacanza in un posto in cui non ci sono servizi». A Lorenzago l'ufficio postale c'è, è aperto tre giorni alla settimana, ma Tremonti resta preoccupato: «C'è un trend pericoloso, i Comuni possono fare la loro parte ma se parallelamente non c'è volontà da parte dei privati di investire in montagna non si può andare avanti».

BANCOMAT. Preoccupata anche il sindaco di San Pietro Elisabetta Casanova Borca, che ha perso lo sportello Unicredit ma fortunatamente ha un'altra banca sul territorio. In montagna bisogna sapersi accontentare. «Ma i servizi sono fondamentali, per mantenere la montagna viva», afferma. Anche a Pieve di Livinallongo è stato chiuso lo sportello bancomat della Cassa Raiffeisen della Val Badia (per ragioni di sicurezza i rifornimenti di contante sono stati affidati a una ditta specializzata nel trasporto di valori e rifornire tutti gli sportelli deceentrati sarebbe troppo costoso). Ma nel Comune guidato da Leandro Grones ci sono altri tre punti di prelievo, due banche, due uffici postali.

«Qui ci difendiamo, come servizi, ma restiamo con le antenne dritte, non si sa mai», spiega il sindaco, che vuole chiedere a Poste italiane di installare un postamat a Pieve di Livinallongo, per sopperire alla chiusura dello sportello bancomat.

I RICORSI. E' ancora in piedi il ricorso al Tar dei Comuni di Zoldo Alto (ex, oggi Val di Zoldo), Colle Santa Lucia e Gosaldo contro la chiusura degli uffici nei loro territori. A Comelico Superiore il sindaco ha vinto la sua battaglia e l'ufficio di Candide ha riaperto. Ma la situazione è critica. «Nell'ultima decina di anni hanno chiuso una ventina di uffici», spiega Loredana Vian, della Slc Cgil. «Trentacinque, del centinaio rimasto, lavora a giorni alterni. L'azienda da quando è diventata privata guarda agli utili e questi sono i risultati».

Il Bellunese paga anche lo scotto di essere «una provincia poco ambita. Guardando alla mobilità interna a Poste italiane, nessuno chiede di venire a Belluno. E le persone impiegate nella nostra provincia spesso si trovano a lavorare un giorno in un ufficio, quello successivo in un altro distante anche 50, 70 chilometri. Una situazione difficile da sostenere»

IL COMMERCIO IN GINOCCHIO. Settecento negozi chiusi in sette anni. Una cifra “tragica”, se si pensa che complessivamente in provincia di Belluno operano poco più di 2.300 esercizi commerciali, tra ingrosso e dettaglio. Un fenomeno in crescita che è causa ed effetto dell’abbandono del territorio da parte di chi lo abita. In montagna la crisi economica sta lasciando il segno, più forte di quello che si credeva.

LE CIFRE. Nel 2008 le nuove aziende erano state 160 a fronte di 258 chiusure (saldo -98); nel 2015 le iscritte sono state 145 e le cessate 281 (-136). E la diffusione del problema è pressoché omogenea. «Non ci sono aree esenti da questa morìa», sottolinea il direttore di Ascom, Luca Dal Poz, «il fenomeno è presente dappertutto». Dal bar all’alimentare, da chi vende macchine di movimento terra a chi commercia materiale edile: tutti i settori sono bloccati.

L’ANALISI. E il presidente di Confcommercio non nasconde la sua preoccupazione. «La situazione è devastante», commenta Paolo Doglioni, «per alcuni elementi concatenati tra loro: da una parte le zone alte della montagna soffrono perché l’unica nostra salvezza è il turismo, un turismo qualificato e aiutato. Lo dico da tempo, ma la mia è una voce isolata nel deserto. Se noi pensiamo di fare altro dal turismo, sarà difficile sopravvivere. Ma abbiamo bisogno di un turismo che offra servizi a turisti che hanno parametri molto precisi e conoscono tutto quello che c’è in giro. Il turismo, però, deve essere sostenuto dalle varie istituzioni regionali, statali e anche europee. Chi fa turismo», sottolinea Doglioni, «mette in moto altri tre settori: commercio, edilizia e artigianato».

DETASSAZIONE. Di fronte alle continue chiusure, il presidente chiede la detassazione delle botteghe di alta montagna: «Molti iscritti ci dicono che alla fine sono più le tasse che pagano di quello che guadagnano. E allora vanno bene i controlli, ma non deve essere una continua caccia al ladro, perché qui si trova solo una situazione di grave disagio. Se vogliamo far rimanere le persone, servono aiuti e agevolazioni».

Ma l’abbandono del territorio è innegabile. «I giovani, che sono quelli che spendono, se ne vanno e nei paesi restano gli anziani che non creano ricchezza», dice Doglioni che continua: «C’è un grande limite in questa provincia: la scarsa capacità di fare squadra. Qui, ognuno guarda al suo piccolo orto, si va avanti per casacche, non per qualità. Si antepone il bene proprio al bene comune, ma così non si andrà mai da nessuna parte».

L’AGROALIMENTARE

Se la crisi del latte si prolungherà anche nei prossimi mesi, molte stalle della provincia saranno destinate a chiudere. «Ci sono già alcune realtà che hanno dovuto cessare l’attività», fa presente Silvano Dal Paos, presidente Coldiretti Belluno. «Il numero non è elevatissimo. Ma quelli in difficoltà e sull’orlo del baratro sono numerosi. E se la crisi del settore lattiero-caseario continuerà ancora, anche solo fino a settembre-ottobre, il 20% di chi lavora nel comparto dovrà chiudere».

I PREZZI. Il crollo del prezzo del latte e tutto ciò che ne consegue, certo non rappresentano l’unico problema che attanaglia il mondo dell’agricoltura. Ma sono andati senz’altro ad accentuare una situazione già critica, visto che il 70% dell’agricoltura bellunese vive grazie alla produzione di latte e carne. Tant’è che allo stato attuale «siamo alla disperazione», dice ancora Dal Paos. «Il peggio è che non si vedono prospettive di miglioramento. I consumi vanno a calare e anche le recenti campagne contro la carne rossa hanno influenzato l’attività degli allevamenti».

LE RIPERCUSSIONI. E se le aziende chiudono le ripercussioni sono ampie: «Terreni e prati vengono abbandonati», continua Dal Paos, «e si arriverà a un punto in cui il pubblico dovrà pagare i privati per fare pulizia e manutenzione. Per questo anche gli amministratori locali, quando si parla di terreni in stato di abbandono, dovrebbero mettersi una mano sulla coscienza. Qualche speranza è stata riposta qualche anno fa nel decreto “Campolibero” e nella legge regionale denominata “Banca della terra”. Purtroppo, finora, manca l’applicazione».

A questo si aggiungono vincoli e regolamenti farraginosi “scaricati” sull’agricoltura. «Dovremo decidere di andare tutti a lavorare in fabbrica?», si chiede Dal Paos. «Ricordiamo, però, che così non si mangerebbe più. E a risentirne sarebbe l’intero territorio, anche dal punto di vista turistico».

LA ZOOTECNIA. Mauro Alpagotti, direttore della Cia, ricorda che la ristrutturazione del settore zootecnico, avvenuta tra la metà degli anni Ottanta e fino al 2000, ha portato già allora, nella parte alta della provincia, alla chiusura di diverse aziende, con conseguente spopolamento.

«Con la crisi attuale», commenta, «il problema reale è che le chiusure avvengano anche in Valbelluna. Quel che è accaduto tra 2015 e 2016, se non si interviene, segnerà profondamente il sistema produttivo, e anche il paesaggio. L’altro discorso è di tipo sociologico: gli imprenditori agricoli, ma non solo, soffrono di un senso di abbandono da parte delle istituzioni. E provano sconforto e rassegnazione. Per questo i giovani lasciano il territorio. La montagna deve essere presa nel suo complesso, considerando imprese, persone e territorio, ma la politica, purtroppo, fa solo interventi spot».

STALLE IN GINOCCHIO. Da notare il fatto che la crisi del lattiero-caseario ha portato alcune realtà a diversificare, «ma la multifunzionalità non è ancora abbastanza spinta», aggiunge Alpagotti. «C’è da dire, d’altra parte, che alcune attività di nicchia vanno abbastanza bene: c’è una ripresa, per esempio, per quanto riguarda il settore forestale. Ci sono aziende che si cimentano nelle orticole. Nella parte bassa della provincia è interessante la riqualificazione dei bovini da carne, per cercare di non rimanere legati solo alla produzione di latte».

LA CONCORRENZA. Sta di fatto che, di fronte all’assenza della certezza di un reddito adeguato, la gente abbandona lavoro e territorio. «Nel settore agricolo, con il Psr per esempio, abbiamo avuto degli interventi che hanno creato aspettative», sottolinea Diego Donazzolo, presidente Confagricoltura Belluno, «con aziende che hanno investito e sono cresciute. Poi, però, si è “perso” qualcosa. Continuiamo a soffrire della concorrenza sleale di regioni e province confinanti. E le misure intraprese per le nostre aziende sono insufficienti». Secondo Donazzolo, allo stato attuale quella agricola è percepita come un’attività secondaria.

«Deve invece riappropriarsi del proprio ruolo», dice, «e, allo stesso modo, la montagna deve riacquistare la propria funzione. In generale, le aree montane devono godere di una defiscalizzazione particolare, per tutte le attività, non solo per l’agricoltura».

MODELLO FAR WEST. «Siamo il “Far West” del Feltrino, tagliati fuori da tutto», dice Marcello Taiappa, presidente dell’Auser Arsiè da 2 anni e mezzo. «L’agricoltura è in totale abbandono: se non avessimo la stalla sociale, il settore sarebbe praticamente estinto. Lentamente c’è chi sta tentando di recuperare qualche vigneto, come sulla piana dei Solivi, ma in modo lento e individuale».

Inutile fare analisi politiche, perché si tratta di un male fisiologico: «La gente si sposta dove ci sono più servizi, come i trasporti. Qui poi manca anche il lavoro: le ultime due fabbriche hanno chiuso nel ’92 delocalizzando la produzione all’estero». È da allora che gli arsedesi, soprattutto quelli tra i 40 e i 50 anni, fanno i chilometri per lavorare. I ventenni per studiare. Tanti altri per vivere.

«Avevo rilevato nel 2002 un negozio di scarpe ben avviato a Pieve di Cadore, ma sono stato costretto a chiudere nel 2015, perché non c’era più giro» racconta Valerio Alberti «chiudere in questo modo è come fallire. Insieme con mia moglie avevamo una clientela abituale e prodotti tradizionali che puntavano sul comfort più che sulla moda. Tenevamo aperto ogni giorno durante l’estate, ma alla fine l’attività di un mese non ripaga il mancato guadagno degli altri undici. Battere la concorrenza dei centri commerciali e delle vendite on line non è possibile per un piccolo negozio di paese. Alla fine abbiamo deciso di chiudere, pur rimettendoci. Abbiamo svenduto praticamente tutto il magazzino, mettendo scarpe acquistate per 50-70 euro a 4-5 euro».

Il problema è che non c’è più gente: «È terribile vedere il centro del paese vuoto al sabato: tutti vanno nei centri commerciali e non ci sono attrattive per i turisti e neanche le strutture adeguate per accoglierli. Non si può pensare che uno venga a Pieve solo perché è la città natale del Tiziano. C’è anche il lago, che però in estate però viene svuotato dall’Enel».

Vittima della crisi e dell’abbandono del territorio anche Vittorino Boschet, titolare di un negozio di mobili a Pieve di Cadore, che tre anni fa ha deciso di chiudere i battenti. «Ho iniziato nel 1971, le cose sono andate bene, finché la gente non è andata nei centri commerciali, poi è arrivata la crisi e sono mancati i soldi da spendere. Ma qui in Cadore manca un programma di recupero dell’intera area. Così non si può andare avanti. È tutto morto».
 
Della stessa idea Aurora Ciet di Gosaldo, per 39 anni gestrice del bar pizzeria Posta, chiuso a gennaio 2015. «Ai bei tempi si teneva aperto dalla mattina alle 7 fino alle 23 e c’era sempre qualcuno che passava. Ora invece il bar del paese chiude alle 19 o anche prima. È una desolazione. Non si vede nessuno. Qui mancano gli alberghi, le strutture per accogliere i turisti. Un tempo era pieno di tedeschi».


 
Anche i negozi che oggi si chiamerebbero di nicchia hanno dovuto chiudere i battenti. Adalberto Berletti per 60 anni ha venduto sementi, piante, pulcini e attrezzature per giardino ad Agordo. «Avevo una buona clientela, poi sono arrivati i supermercati, la crisi ha tolto potere di acquisto alle famiglie, le leggi hanno limitato la caccia. Ultimamente si lavorava per pagare le tasse. E ancora non bastavano. Così», dice sconsolato, «si perdono i rapporti umani. A me piaceva dare consigli su come tenere una pianta, come allevare i pulcini. Oggi non è più così».
 
«Alla fine lavoravo con i residenti anziani e le loro badanti, gli unici rimasti qui. Ma come si capisce non c’è stato ricambio e così dopo 13 anni di lavoro ho deciso di chiudere il minimarket», dice Laura Bortoluzzi di Tambre.

Dopo 65 anni di attività ha chiuso anche il negozio di alimentari di Augusto Gliera, tra Arabba e Livinallongo. «Il problema è che il ceto medio è sparito, il ricco non si ferma e il povero non spende».

MAPPA. Ecco i luoghi citati in questa nostra inchiesta

I sindaci, specie quelli di montagna, non sono persone che si arrendono facilmente. E le loro battaglie portano a risultati importanti per le comunità che guidano. Gli esempi non mancano, nel Bellunese. C'è Marco Staunovo Polacco, che ha vinto il ricorso al Tar e costretto Poste Italiane a riaprire l'ufficio di Candide.

UN BANCOMAT. C'è Dario Scopel, che dopo un anno è riuscito a ridare a Seren del Grappa uno sportello bancomat. Unicredit aveva chiuso il suo a marzo 2015 e a nulla erano servite le duecento firme raccolte in pochi giorni fra i cittadini. «L'ufficio ha chiuso in aprile, il bancomat ce l'hanno tolto ad agosto», racconta Scopel. «Si tende sempre ad accentrare i servizi, lasciando scoperti i territori marginali».

Ma il sindaco non si è perso d'animo. Ha bussato alla porta di ogni istituto di credito e alla fine ha trovato chi ha risposto al suo appello: la Cassa rurale Primiero e Vanoi, che la scorsa settimana ha ridato a Seren un servizio molto importante. «Dobbiamo ringraziare anche Alessandro Scopel, che è nel consiglio di amministrazione della Cassa rurale ed è di origine serenese», continua il sindaco. «Ha fatto capire che il territorio è vivo, vivace e così è stato riaperto lo sportello».

GUARDIA MEDICA. Fra gli argomenti per i quali l'Anpci si sta battendo, ci sono l'eliminazione della guardia medica notturna «che creerebbe enormi disagi alla popolazione e impoverirebbe la montagna», ma anche il problema legato ai numeri minimi per costituire una classe: «Il limite di dieci bambini va abolito, altrimenti si rischia di costituire pluriclassi che ai genitori piacciono poco».

Con il risultato che molte famiglie preferiscono trasferirsi per dare un futuro scolastico ai propri figli. Fra le altre richieste dell'Anpci ci sono la defiscalizzazione per i piccoli negozi, l'aiuto alle partite Iva e a chi investe nelle piccole e medie imprese.

IL PAESE DEGLI OVER 65. Persone che si trovano quotidianamente ad affrontare le problematiche del territorio e della sua comunità. Per lo meno quella rimasta. A Gosaldo vivono appena 640 persone, la maggior parte ultra sessantacinquenni. «Il saldo fra nascite e decessi è negativo da diversi anni», evidenzia il sindaco, Giocondo Dalle Feste. «Le famiglie tendono ad avvicinarsi ai paesi in cui ci sono i servizi, e soprattutto dove c'è lavoro. Nel nostro caso, basta spostarsi ad Agordo».

Ma se la popolazione se ne va perché non ci sono i servizi, nessun servizio si potrà implementare in un territorio con sempre meno popolazione. Un circolo vizioso che per Dalle Feste si può interrompere creando reddito nei paesi: «Bisogna dare lavoro alle persone perché decidano di rimanere in montagna. Noi diamo alle famiglie con figli mensa e trasporto gratuito all'asilo e alle elementari, ma non è sufficiente per invertire il trend. Servono incentivi per chi decide di aprire un'attività in montagna, per esempio».

BANDA LARGA DECISIVA. Punta l'attenzione sugli investimenti anche Fabio Luchetta, sindaco di Vallada: «Solo attraverso una politica che nasca da una strategia e che metta al centro l'abitare in montagna si può invertire il trend dello spopolamento», afferma. «Ma è anche necessario lavorare sulle infrastrutture. Pensiamo a quante persone sono costrette a spostarsi a valle perché per lavoro hanno bisogno di una connessione internet veloce. In montagna non c'è».

LA LOGICA UNITARIA. Gli investimenti, però, non possono prescindere da una strategia comune, che veda tutta la provincia muoversi in un'unica direzione. In Agordino, come in Comelico e Sappada, l'opportunità delle aree interne sta consentendo di ragionare secondo una logica unitaria: «È importante creare uno strumento che consenta di canalizzare i fondi a disposizione», prosegue Luchetta. Se poi i rappresentanti bellunesi al governo ci mettessero del loro... «Sarebbe positivo organizzassero loro incontri sul territorio per raccogliere le problematiche e fare squadra comune. Il problema montagna non può avere colore politico», conclude il sindaco.

RISORSE E SERVIZI. Lottano, i sindaci, combattono per dare una speranza ai territori che amministrano. «Ma pur con tutta la buona volontà, senza interventi mirati è difficile risolvere i problemi», precisa il primo cittadino di Santo Stefano Alessandra Buzzo. «Servono servizi perché la gente resti a vivere in montagna, ma servono soprattutto risorse, da investire per sistemare le criticità che viviamo quotidianamente. Io sono comunque fiduciosa, guai a non lottare per rivendicare le nostre istanze».

Soldi, politiche adeguate ai territori, rappresentanza. Invertire il trend dello spopolamento che strangola la montagna è possibile, secondo Diego Cason, sociologo ed esponente del Bard. Movimento che da anni lavora per favorire politiche che garantiscano sviluppo e futuro alla montagna. «Per frenare lo spopolamento servono politiche e strumenti di amministrazione su misura dei territori montani», spiega. «Ad esempio politiche che favoriscano l'insediamento delle giovani coppie in montagna, come succede da anni in Alto Adige dove vengono dati incentivi a chi sceglie di vivere in certe vallate. Ma anche politiche che favoriscano la presenza dei negozi di vicinato».

C'è poi il tema della rappresentanza: «I territori montani non possono rimanere privi di una rappresentanza, perché è necessario un ente che si occupi delle istanze delle comunità».

La proposta del Bard è semplice: riportare la Provincia a ente di primo livello, elettivo, con un consiglio provinciale formato da quattro rappresentanti per ciascuna vallata (Cadore, Agordino, Feltrino e Bellunese), anche loro, come il presidente, eletti dal popolo. In questo modo tutte le istanze dei territori avrebbero la giusta attenzione. E in questa Provincia non dovrebbero esserci i sindaci: non solo perché hanno altro di cui occuparsi (amministrare un Comune), ma anche perché chi viene eletto in un territorio fatica ad avere quello sguardo ad ampio raggio per occuparsi anche di zone distanti decine di chilometri.

Ma la rappresentanza da sola non basta. Servono anche risorse: «Le tasse che pagano i bellunesi dovrebbero restare sul territorio ed essere gestite dal territorio», continua Cason. «La sovranità politica ha bisogno di quella economica per funzionare».

Cason si spinge a indicare la necessità, per i territori montani, anche di una sovranità legislativa, per lo meno su alcune materie (gestione del territorio, attività produttive, turismo, gestione delle proprietà pubbliche e private, politiche residenziali, commerciali, gestione dell'agricoltura).

«I nostri rappresentanti politici dovrebbero fare fronte comune per dare una risposta alle esigenze della montagna», conclude Cason. «Certo, ciascuno di loro risponde ad un partito, ma è anche assurdo non trovare unità di intenti se un provvedimento è buono per un territorio».

IL SONDAGGIO SUL MODELLO VENETO

Torna in ballo il referendum sull'autonomia del veneto, previsto per l'autunno del 2016. Questo qui sotto era l'esito di un sondaggio promosso sui siti e sui social media del Corriere, del Mattino di Madova, della Tribuna di Treviso e della Nuova Venezia ad aprile 2016

Speciale a cura di Paolo Cagnan, testi di Valentina Voi, Alessia Forzin, Francesca Valente e Paola Dall’Anese

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