La notte del Vajont tra macerie e morti
Renato Bogo era caporal maggiore a Belluno e ricorda bene le prime ore dopo la tragedia: «Testimoni di una guerra silenziosa, senza armi»
BELLUNO. “Quella notte...”. Non occorre specificare oltre, con gli alpini della Brigata Cadore. “Quella” è la notte del Vajont. La notte che fece la storia di questa Brigata, come testimonia uno dei protagonisti, Renato Bogo.
La storia più drammatica, quella più intensa sul piano umano. «Quella notte del 9 ottobre 1963, rientrando in caserma, a Belluno, verso le 22.15, avvertii una strana sensazione, una specie di misteriosa inquietudine...» comincia a raccontare.
Lei che cosa faceva in caserma?
«Ero caporal maggiore, facevo il segretario del comandante. Allora non c’era internet, non esisteva la posta elettronica. Ero io a portare gli ordini del comando. Quella notte, dunque, feci pochi passi verso la branda per coricarmi e sentii la tromba suonare l’allarme. Mi precipitai in ufficio. Il fonogramma ricevuto lasciava pochi dubbi: la diga del Vajont è caduta, Longarone non esiste più. Con il comandante del battaglione partimmo con una campagnola. Fummo costretti a fermarci a Pirago».
Qual è stato il primo impatto?
«Non dimenticherò mai quella notte di luna piena, straordinariamente luminosa, splendente. Non potevi non guardarla, ma abbassando lo sguardo, gli occhi si riempivano di lacrime. Solo morti, ancora morti. Già tra Ponte nelle Alpi e Fortogna avevamo trovato montagne di detriti, animali gonfi d’acqua, corpi abbandonati, devastati dall’onda e trascinati dalla corrente del Piave. A Pirago salimmo sulla ferrovia; non restava che un ferro contorto, braccia metalliche protese verso l’alto ad implorare anch’esse un aiuto impossibile».
E la diga?
«La diga sempre intatta, imponente, dominatrice, spettatrice muta».
Le operazioni di soccorso, da parte della vostra Brigata, partirono subito.
«Ma quale soccorso? Non finivamo di raccogliere morti. Porto negli occhi l’immagine di un bimbo, dal corpo ancora caldo, che abbiamo recuperato ormai cadaverino, da sotto le coperte rimboccate dalla mamma. Un corpicino incredibilmente ingrossato dall’acqua».
Ha mai trovato risposta il dolore di voi alpini della Cadore?
«No, sinceramente non abbiamo mai trovato risposta. Noi alpini ci siamo sentiti testimoni di una guerra silenziosa, combattuta senza armi e senza possibilità di vittoria, contro noi stessi e la nostra presunzione di poter dominare la natura».
Ecco, se permette, la lezione del Vajont: la custodia del creato non è dominio, ma servizio. Conviene?
«Certo. Gli alpini della Cadore sono sempre stati le sentinelle di un creato così concepito. Lo hanno dimostrato nei 43 anni di presenza fra queste montagne. Ed è una missione che continua, attraverso la protezione civile dell’Ana: noi in sezione abbiamo un bel numero di volontari».
Al raduno interverrà anche il presidente nazionale Sebastiano Favero che da anni si sta battendo per la naja civile, finalizzata alla protezione civile. Lei condivide?
«Certamente. Direi di più, servirebbe un nuovo servizio militare per educare alla vita tanti giovani che oggi non hanno regole di riferimento. Comunque sarebbe già qualcosa poter contare su 6-8 mesi di “ferma” per imparare a comportarsi nelle situazioni di emergenza, magari anche per impratichirsi nella prevenzione, nella cura del territorio».
E magari anche per imparare a dire “signorsì?
«Non è facile dire signorsì. Ma non è facile neppure farselo dire. Ricordo, al riguardo, il mio comandante, qui a Belluno. Era un capitano amico di famiglia. La prima volta che ci incontrammo in caserma lui mi disse: “Ricordati che io sono il tuo comandante e tu mi devi obbedienza, anche se siamo amici”. Dirgli “signorsì” fu davvero pesante, sia per me, ma soprattutto per gli altri alpini. Chi porta i gradi non deve essere altezzoso, semmai ancora più rispettoso della dignità dei sottoposti. Quel comandante puniva con troppa facilità, come se si prendesse gioco di noi semplici soldati».
Era più facile per i conducenti farsi dare il signorsì dai muli?
«I muli? Erano amici molto simpatici, soprattutto servizievoli, non dimentichiamo gli obici che portavano lassù sulle montagne. Noi alpini della Cadore abbiamo pianto quando li hanno dismessi, ma soprattutto quando hanno chiuso la Cadore che, ripeto, per la maggior parte di noi si è risolta in una scuola di vita».
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