La zona della morteI re degli ottomila sfidano l'impossibile
Cosa succede ai confini del possibile? Un sopravvissuto racconta: «Stavo passando dal mondo reale a quello dei miei pensieri»

Una vista dell'Everest
A definirla «Zona della morte» è stato per primo Reinhold Messner, il re degli ottomila. Lui ha scalato tutti i 14 giganti del mondo, è uno che se ne intende. La Zona della morte è quella dove l’ossigeno viene a tal punto a rarefarsi da provocare cambiamenti anche nella fisiologia umana. Il sangue si fa più denso, la respirazione difficoltosa, si distruggono dei neuroni, qualsiasi piccolo movimento si trasforma in una fatica estrema. Il film in edicola da domani con il nostro giornale, firmato da Claude Andrieux, esplora appunto questo confine dell’estremo sia dal punto di vista fisico che da quello psicologico, ed anche esistenziale. E’ uno dei capolavori del cinema di montagna, premiato ai Filmfestival di Autrans (Francia), Jaca (Spagna) e Trento nel 1997. Il regista è nato a Grenoble nelle Alpi francesi nel 1956. Produttore e regista indipendente, ha realizzato in dieci anni quasi venti documentari. Le sue opere sono state premiate nei maggiori Festival specializzati del mondo, e a Trento ha vinto la Genziana d’argento per la migliore opera di montagna nel 1992 con «La Maison Burgenew». La Zona della morte è l’incubo di tutti gli alpinisti che affrontano gli ottomila.
Ehrart Loretan, il terzo uomo ad aver scalato i quattordici giganti, la descrive come una zona dove «più procedi, più tutto diventa uguale». Si va avanti in uno stato tra la sonnolenza e il sogno ad occhi aperti, «scalatori in una nebulosa». Lì, dice Ehrart, «senti davvero che hai messo un piede nell’aldilà». La mancanza di ossigeno è il pericolo maggiore, ma basta una sciocchezza per morire. La vetta che si avvicina di più alla nozione di morte è l’Everest, ma anche il Kanchenjonga e il K2. Cioè le tre montagne più alte del mondo rispettivamente con i loro 8848, 8598 e 8611 metri. Non a caso solo sull’Everest, da quando l’uomo ha tentato di salirlo, sono scomparsi ben 131 alpinisti. Un ambiente fisiologicamente invivibile, lo descrive Erik Decamp: «Lassù non si mangia e non si beve mai abbastanza, e anche se si dorme non si riesce mai a recuperare la fatica durante la notte».
Dove ha inizio la Zona della morte? «Forse a 8200 metri», dice Decamp. «Forse. Sono passaggi oltre i quali sopravvivere è molto difficile».
Dal punto di vista medico la questione è ormai molto chiara. «E’ la bassa pressione atmosferica ad alterare gli scambi cellulari per quanto riguarda l’ossigeno», spiega Eric Escoffier. «Ma non sappiamo ancora bene in quale modo succede». Una situazione che ha effetti sui muscoli ma anche sul cervello. Il confine però è anche soggettivo. Per un alpinista esperto e allenato può essere lassù, a 8200-8300 metri. Per gli altri è magari a 6500-7000. Ognuno ha la sua soglia personale. «Molti scompaiono sull’Himalaya», dice Jean Afanasieff, «perché hanno voluto superare la soglia delle proprie possibilità personali». Per Jean Mi Asselin, un altro degli alpinisti intervistati nella pellicola e che ha quattro tentativi all’Everest alle spalle, sostiene che quanto è accaduto a molte persone dimostra che «esiste tra 8200 e 8300 metri un punto di fragilità estrema dell’uomo».
A quella quota anche dormire in tenda è un’impresa. Un movimento semplice come il girarsi su un fianco comporta un tempo di recupero di 2-3 minuti per ritrovare il ritmo della respirazione, per uscire dall’affanno. Kurt Diemberger, che è un veterano degli ottomila, nel 1986 è rimasto bloccato per cinque giorni e cinque notti a quota 8000 sul K2, in una tenda con altri cinque compagni. Sono sopravvissuti in due, lui e un austriaco. Gli altri morirono assiderati. «Mi ero reso conto che avrei potuto resistere soltanto per un altro giorno». Bloccati da una interminabile tempesta, potevano solo aspettare, e sperare che il tempo cambiasse: «Nella tempesta non puoi nemmeno ritrovare la tenda». Che cosa gli è successo in quel tempo infinito? «Ho cominciato a dormire e a fare sogni meravigliosi. Sognavo il sole, la campagna, i fiori. In questo modo cominci a perderti nei tuoi pensieri, lentamente passi dal mondo reale al mondo che stai pensando. Sì, morire in questo modo non è brutto, direi che è il modo migliore di morire in montagna. Certo meglio che precipitare».
Si chiama Zona della morte perché la morte è in zona. La annusi dappertutto. Gli ottomila sono anche il regno della banalizzazione della morte. «Ti siedi, ti puoi addormentare. Ed è finita». Afanasieff ha filmato una spedizione sul Nanga Parbat, 8125. I dialoghi dimostrano questa presenza quotidiana e accettata della morte come evento che lassù acquista una sua «normalità». Ogni giorno arrivano al campo le notizie di alpinisti precipitati o dispersi, magari per aver lasciato le corde nella discesa, o perché è capitato qualcosa a un portatore e loro sono saliti senza. Gli alpinisti sono tutti concordi: sappiamo di esporci a questa eventualità, dicono quasi in coro, ma è questa la regola del gioco. E allora perché andarci? E perché ritornarci quando si è già rimasti vittime di incidenti che sono costati la vita ai compagni?
Rendere possibile la propria morte è una cosa interessante, naturalmente. E’ prendere coscienza con se stessi come sempre accade in situazioni estreme, per esempio in guerra. Ed è per l’appunto lì, nella guerra, che la vita diventa bellissima: «Affrontare la morte è poter apprezzare la vita». Nonostante tutto, chi è stato lassù in cima al mondo continua a provare una acuta nostalgia per quel posto invivibile: «Lassù c’è qualcosa di straordinariamente bello». Per questo lo vogliono ritrovare, sperimentare di nuovo.
Gli alpinisti dell’impossibile sono stati, magari per pochi minuti, in un posto dove erano gli unici al mondo. Nessuno quel giorno poteva trovarsi più in alto di loro. E’ un viaggio verticale, ma alla fine del mondo. Verso un punto oltre il quale di mondo non ce n’è più. Vale la pena rischiare la vita? Perdere la vita, dicono tutti, no. Meglio vivere. Ma rischiarla è un’altra cosa, e quello forse sì, ne vale la pena. Certo, nessuna vetta vale la morte perché «la vita è troppo bella». Però «quando ti trovi in una situazione dove devi correre un forte rischio per realizzare il tuo sogno, semplicemente non stai a chiedertelo: vai avanti, poi si vedrà». Per loro, sono gli altri a porsi questa dmanda, non gli alpinisti.
Diemberger è d’accordo: «Per realizzare un sogno rischi tutto quello che hai». Perché, alla fin fine, «non ti guadagni mai la vita se non rischi la vita. Se ti fermi a pensare se ne vale la pena o non ne vale la pena, non sei libero». Ed è la libertà l’essenza dell’alpinismo.
E poi, si può morire per mille ragioni. C’è chi muore per una donna, o un regno, o un ideale. C’è chi muore anche perché fuma troppe sigarette. Dunque sì, si ha pieno diritto di morire per un ottomila: perché si ha diritto di vivere e di morire per mille ragioni, dipende dai valori di ciascuno.
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