L'alpinismo secondo Dino Buzzati
Raccolti in un libro gli scritti del giornalista dagli anni 30 agli anni 60
Dino Buzzati e Rolly Marchi sulla Croda da Lago
BELLUNO.
Le Dolomiti si possono gustare in tanti modi: guardandole, percorrendole, scalandole, ma anche leggendole. Ed è davvero un gusto speciale quello che si prova nel prendere in mano la raccolta degli scritti che un grande giornalista e scrittore come Dino Buzzati, ha dedicato alla montagna ed ai Monti Pallidi in particolare. Nato a San Pellegrino vicino a Belluno, nella casa di famiglia, Buzzati non ha mai dimenticato nella sua vita tutta milanese le origini montanare.
Ha amato la montagna, l'ha desiderata, l'ha vista trasformarsi (senza che la cosa gli piacesse poi molto) ne ha seguito le imprese alpinistiche. Il tutto con la passione di un amore a volte corrisposto e a volte tradito, raccontato con tutta la poesia di cui era capace anche se, apparentemente, di semplici cronache si trattava.
Ora Mondadori ci restituisce in maniera organica un corpus di scritti, tutti dedicati alle montagne, che si sviluppa dagli anni trenta fino alla fine degli anni sessanta, grazie al prezioso lavoro del curatore Lorenzo Viganò ("I fuorilegge della montagna. Uomini, cime, imprese", Oscar, due volumi, pagg. 644, euro 19). Scritti che vanno dagli articoli ed elzeviri apparsi sul Corriere della Sera, sul Corriere dell'Informazione, sul Corriere dei Piccoli, ai racconti, ai saggi, alle prefazioni di libri.
Non a caso i due volumetti si aprono con gli uomini che hanno nobilitato le Dolomiti con le loro storiche imprese, come Tita Piaz, Paul Preuss, Emilio Comici, Riccardo Cassin, Walter Bonatti, Cesare Maestri. Gli scalatori, a cui va tutta l'incondizionata ammirazione di Buzzati.
«Le doti morali necessarie in scalate come questa - scrive sul Corriere dei Piccoli nel 1965 riferendosi all'ascesa del Cervino, in solitaria invernale, di Walter Bonatti - sono però di gran lunga più alte di quelle che entrano in azione in una partita di calcio o in un incontro di pugilato. L'uomo insomma, qui si rivela nella sua forma più completa e più degna».
Ed ancora, sul CorSera del 1961: «La forza fisica era l'unico capitale toccatogli in sorte. Ma è sintomatico come Oggioni (Andrea Oggioni morto durante una scalata del Monte bianco, ndr) lo investisse fino in fondo in una delle attività più pericolose e meno remunerative che esistano al mondo: l'alpinismo. Non è questo, in un ragazzo del popolo, il segno di una rara nobiltà di gusto e d'animo?».
Sono sempre gli uomini, dunque, che rendono grandi le montagne con le loro imprese, come la conquista del Cervino e del K2, in un confronto che è sfida alla tenacia ed alla creatività ed in cui emergono anzitutto le qualità morali. «Non basta essere valenti ginnasti. Atleti inappuntabili, condotti sulle crode, hanno fatto un fiasco solenne; mancava l'elemento morale, quello che divide nettamente l'alpinismo da tutti gli altri sport. Alle doti materiali deve essere unita una straordinaria forza d'animo».
Siamo nel 1932, in un articolo sul Corriere della Sera in cui analizza le caratteristiche del sesto grado.
Tanta è l'ammirazione per chi vince nuove vette e scopre nuove vie, quanta la disillusione per quella che gli sembra essere l'impresa che chiude ogni orizzonte: la scalata dell'Everest, la vetta più alta del mondo. «Non era forse meglio se l'Everest fosse rimasto intatto?» si chiede sul Corriere dell'Informazione del 1953. «L'Everest era un'immensità senza confini, proprio perché non conquistato. Oggi l'incanto è rotto, oggi siamo sicuri che la cima favolosa è fatta come tante altre, che non vi abitano gli dei della montagna. (...) E' insomma cominciata la sua storia (dell'Everest, ndr.), ma è finita per sempre la sua leggenda».
Ma è solo un attimo. Le vette sono intrinsecamente dentro di lui, e se tutte ormai sono diventate preda dell'uomo, nuove e più difficili vie stimolano altre avventure. Le cime sono nei suoi romanzi, metafora del mistero, nei suoi quadri, nei suoi articoli sempre dettagliati, chiari, illuminanti anche dell'animo umano dei protagonisti. E poi c'è lo sci, che gli ridona il sorriso della gioventù, e le Olimpiadi di Innsbruck del 1954. La montagna diventa riflesso di un mondo che cambia e si trasforma. Forse anche troppo velocemente, e non sempre nella direzione giusta.
Commenta, infatti, nel 1952 sul Corriere della Sera in un articolo dal titolo "Salvare dalle macchine le Tre Cime di Lavaredo": «Ricordiamoci che la natura vergine, come l'ha fatta Dio, sta diventando una autentica ricchezza. Di tale ricchezza le Dolomiti sono una miniera prodigiosa che il mondo sempre più ci invidierà. Ma se la si sfrutta ciecamente, per la smania di pomparne soldi, un bel giorno non ne resterà una briciola».
Un monito attualissimo, da parte di un uomo che la montagna amava vederla dal basso ed affrontarla a piedi, con grande rispetto. «Per capirle, le Dolomiti, veramente, occorre un po' di più - scriveva nel 1956 - E non vogliamo dire arrampicate in piena regola. Bastano i sentieri. Entrare, avventurarsi un poco fra le crode, toccarle, ascoltarne i silenzi, sentirne la misteriosa vita».
Monito attualissimo oggi che le Dolomiti, patrimonio dell'Umanità, si apprestano a vivere una nuova e per molti versi affascinante stagione.
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