L’alpino buono che salvò il bimbo

Per tutta la vita Luciano Basso ha cercato il piccolo che aveva strappato dal fango
Di Martina Reolon

BELLUNO. Un vero e proprio testamento morale: trovare quel bambino e abbracciarlo per lui. È quello lasciato da Luciano Basso alla figlia Deborah.

La storia è legata alla tragedia del Vajont ed è stata conosciuta in tutta Italia, dopo essere stata protagonista del programma televisivo di Raitre “Chi l’ha Visto?” cinque anni fa.

Luciano era un alpino di Vicenza che, all’età di vent’anni, si trovò tra i primi soccorritori a partire da Belluno per raggiungere Longarone, quella terribile sera del 9 ottobre del 1963. Lì, proseguendo a piedi dopo aver abbandonato il camion a causa del fango, soccorse un bambino di tre anni, rimasto solo, che si avvinghiò al suo collo e non lo mollò più, fino a quando furono trasportati entrambi all’ospedale di Belluno con un elicottero americano.

All’ospedale il personale medico dovette somministrare al bambino dei sedativi per riuscire a staccarlo dall’alpino. Da quel momento, le strade del piccolo e del giovane alpino si divisero. Ma quel bambino lasciò un segno indelebile nel cuore di Luciano, che trascorrerà tutta la vita a interrogarsi: si sarà salvato? E i suoi genitori? E i familiari? Quesiti e dubbi rimasti in sospeso per oltre mezzo secolo.

«Mio padre è morto nel 2005 a causa di un tumore. Prima di morire mi ha lasciato un’eredità morale: trovare quel bambino che nel 1963 aveva salvato», spiega Deborah.

«Faceva un po’ fatica a parlare di quella vicenda, ma solo con le persone esterne alla famiglia. A mia madre, a me e ai miei fratelli ha invece trasmesso i ricordi più significativi, più commoventi e dolorosi, ma anche le speranze legate a quella che era stata la sua esperienza».

«Personalmente sono sempre stata interessata a quel che mi raccontava», continua, «e fin da ragazzina salivo con lui a Longarone e a Belluno, dove mi portava spesso la domenica. Sarò nel Bellunese anche in occasione dell’anniversario della tragedia di quest’anno e tornerò poi per l’adunata dei soccorritori alpini».

La storia di Luciano Basso, in questi anni, non è stata raccontata solo a “Chi l’ha Visto?”, ma anche dalla rivista “Giallo” e Deborah andrà alla trasmissione di Raiuno “La vita in diretta”. La vicenda ha suscitato poi l’interesse di uno scrittore di Crema, Lauro Zanchi.

«Mi ha contattato dicendomi che aveva saputo della nostra storia e che gli sarebbe piaciuto scriverne un libro», fa presente Deborah. «È nato così “L’ultimo pensiero. Una promessa scolpita nel cuore”, edito Robin&sons e pubblicato da poco. Un libro che racconta la storia di mio padre e che ha vinto il premio Memorial Vallanti-Rondoni. Preciso che noi familiari non abbiamo nessun introito. Il nostro unico scopo è che la vicenda sia conosciuta e che aiuti a realizzare il desiderio più profondo di mio padre: trovare quel bambino».

Deborah è determinata a rispettare l’ultima volontà del padre. «Non sapete quanto impegno e amore metto per realizzare questo sogno che mi ha lasciato in eredità il mio caro papà», sottolinea ancora. «Nel 2011, tramite il comitato sopravvissuti, avevamo individuato una bambina, che all’epoca aveva circa tre anni e che effettivamente venne ricoverata all’ospedale di Belluno. Ma aveva ferite troppo profonde e gravi per corrispondere al piccolo trovato da mio padre».

Le ricerche sono difficili ma Deborah, contando ora anche sul libro da poco pubblicato, spera con tutto il cuore che il sogno di suo padre si concretizzi.

Commossa racconta anche la vita del papà: nato il 24 luglio del 1942, Luciano era un’autista. Prima ancora aveva lavorato per una ditta che trasportava bibite e acqua. «Ha sposato mia madre Nives nel 1976, anno in cui sono nata io, seguita da Bruno, nel 1977, e da Manolo, nel 1982. I miei genitori erano profondamente innamorati», ricorda Deborah, che da tempo mantiene i contatti con il sindaco di Longarone, Roberto Padrin, con Micaela Coletti, presidente del comitato sopravvissuti, e Renato Migotti, presidente dell'associazione superstiti.

«Nel 1963 mio padre svolgeva il servizio militare alla caserma Fantuzzi di Belluno. Mi raccontava spesso che la sera del disastro era andato a letto con gli anfibi di ordinanza, quasi sentisse che qualcosa sarebbe accaduto. Assieme ai suoi commilitoni fu mandato sul luogo del disastro. C’erano anche i militari di Pieve di Cadore. Quando portò il bambino in ospedale gli promise che non lo avrebbe lasciato solo e che, appena poteva, sarebbe andato a trovarlo. Mio padre riuscì a tornare all’ospedale solo molti giorni dopo. Chiese ai medici che fine avesse fatto quel bambino, ma fu inutile. Probabilmente era già stato dimesso o trasferito altrove. Da allora, per tutta la sua vita, non ha mai smesso di cercare il piccolo che salvò dal disastro».

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