Lamon in Trentino, il referendum dimenticato

Dopo cinque anni attorno alla richiesta c'è il silenzio istituzionale
Applausi in piazza a Lamon alla notizia del risultato del referendum
Applausi in piazza a Lamon alla notizia del risultato del referendum
LAMON. Erano da poco passate le cinque della sera di cinque anni fa quando dalla piazza di Lamon partì una scossa. Quel 93 per cento di sì non lasciava spazio a dubbi o a interpretazioni: per la prima volta nella storia repubblicana un comune sceglieva di cambiare regione. Qualcuno ci aveva provato ma non era mai andato oltre lo scoglio del referendum. I lamonesi ce l' hanno fatta e per questo sono stati copiati, ma a cinque anni dal plebiscito d'ottobre a dominare è il silenzio. Delle istituzioni, della politica, ma anche di quei tanti elettori che in cuor loro pensavano che quella valanga di sì avrebbe aperto all'altopiano le porte del Trentino. Inutile negarlo. La storia di Lamon è stata una storia di silenzi imbarazzati e imbarazzanti. Certo, qualcosa si è mosso, ma non era quello che i lamonesi andavano cercando. Già, ma cosa cercavano i lamonesi? Per mesi - anzi, anni - se n'è parlato parecchio: c'è chi diceva che quelli di Lamon volevano i soldi, chi invece sosteneva che era una questione di cultura del territorio, chi ancora parlava di vicinanza sociale, economica, addirittura religiosa alle terre trentine. In alcuni casi il dibattito divenne addirittura pacchiano, come quando alcuni consiglieri dell'Alto Adige introdussero nella discussione politica il fattore "etnico". Roba da rabbrividire. Dopo cinque anni, verrebbe da dire che a Lamon si cercava una semplice opportunità, forse una riscossa dopo decenni di lento declino. Si tratta di un copione che nel Bellunese non è certo una novità, ma Lamon ha avuto il merito di gridare che il re era nudo. A oggi - e qui sta il problema - il sovrano non è stato ancora rivestito e si prepara a un altro inverno. Sia chiaro. A Lamon non ci sono emergenze mortifere, né cataclismi incombenti. C'è solo la banalità dell'abbandono. Sociologia spicciola a parte, resta il discorso politico. E qui lo scenario è disarmante. Nessuno si offenda se si dice che i politici hanno cavalcato Lamon per poi volerlo addomesticare. Ci hanno provato più o meno tutti e qualcuno s'è fatto pure male. E' il caso degli ex Ds, che in consiglio regionale a Venezia con una mossa a sorpresa scelsero di fare da stampella a Galan. Risultato? Molti distrussero le tessere di partito e la sezione locale implose. A quel punto, sembrava che l'alleato più puro fosse la Lega Nord. «Uno, cento, mille Lamon», dicevano i leghisti. E vai con le strette di mano, le pacche e gli impegni solenni. Poi, puff, tutto svanito in un mare di dichiarazioni. Quando si votò per il referendum, i leghisti erano in minoranza. Oggi sono in maggioranza ovunque, ma non si è mossa foglia. Lo stesso Bossi ha sempre dato risposto generiche. «Ne parlerò con Tremonti», disse nel 2009. Da lì in poi è stata quasi una ritirata in nome del federalismo fiscale. Ma a fare brutta figura sono stati un po' tutti, fatta eccezione ovviamente per quelle forze politiche che si sono dette contrarie al passaggio fin dall' inizio. Basti pensare al Pd. Quale fosse la sua posizione su Lamon non lo ha capito ancora nessuno. Si trattava di dire di sì o di no e poi argomentare. E, invece, sono arrivate solo le argomentazioni. Il Pdl - con Galan in testa - è stato chiaro fin dall'inizio, ma questo non è un alibi. Né Galan né alcun suo colonnello è mai salito a Lamon per spiegare le sue ragioni, conferendo alla Regione una immagine ancora più matrigna. Eppure sul parere a Lamon l'ex governatore aveva minacciato la crisi di giunta. E ora? La domanda non è banale, perché la procedura costituzionale - nolenti o volenti - è ancora in corso. A Lamon si spera solo che la politica torni a fare la politica. Buon compleanno, Lamon.

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