L'appello: «Cerco il bimbo salvato da mio padre a Longarone»
LONGARONE. L’appello, accorato, arriva dallo schermo della tivù. Lo sguardo dritto in camera, la voce rotta dall’emozione. A parlare è Deborah Basso, la trasmissione è “Le iene”.
«Il 9 ottobre 1963 mio padre era tra i militari che arrivarono per primi nella Valle del Vajont», racconta Deborah ricordando la tragedia che mise fine alla vita di quasi 2 mila persone. «Mio padre, Luciano Basso, mi ha sempre raccontato questa storia e di come quella sera salvò un bambino che non ha più dimenticato». La storia, andata in onda mercoledì è anche narrata nel sito della popolare trasmissione.
A Deborah trema ancora la voce nel ricordare i racconti del padre. «Mi parlava del fango, delle persone sommerse, della camionetta che non riusciva più ad andare avanti. I militari si chiedevano quando sarebbero arrivati a Longarone, senza rendersi conto che c’erano già, ma Longarone non esisteva più».
Ed è proprio dove una volta c’erano case e persone che Luciano, il padre di Deborah, vide il bambino senza nome. «Avrà avuto 3 o 4 anni. Era ricoperto di fango, solo e disperato. Si è attaccato alle braccia di mio padre e non voleva più lasciarlo», ha raccontato Deborah a “Le Iene”. «Aveva una canottierina bianca, i capelli corti e forse un braccino rotto. L’ha portato all’ospedale di Belluno, promettendogli che sarebbe tornato prima possibile a trovarlo».
E così fu. Appena avuta la licenza, a circa 20 giorni dal disastro, Luciano tornò in quell’ospedale, ma il bambino, di cui non sapeva neanche il nome, non c’era più. «I medici non hanno saputo dargli informazioni su dove fosse. In quei giorni passarono tantissime persone dall’ospedale. Il bambino poteva essere in un orfanotrofio, oppure con i suoi genitori che erano tornati a prenderlo, o da qualche altra parte. Mio padre l’ha cercato per tutto l’ospedale».
E non solo. Luciano cercò il “bambino senza nome” per le strade, nei paesini, nelle case, per tutta la vita. «Fin da quando ero piccola mio padre tornava ogni mese a Longarone e a Belluno e chiedeva alle persone se sapevano di un bambino sopravvissuto al disastro del Vajont. Suonava i campanelli, chiedeva nei negozi. Ma non l’ha mai trovato. All’ospedale gli dissero che le carte dei sopravvissuti erano state mandate a Roma, ma lui non è mai riuscito a ottenerle».
«Mi diceva», ha proseguito Deborah, «che la sera del disastro scavava per terra in cerca delle persone, che aveva le vesciche alle mani, che gli usciva il sangue. Ma quando ha trovato questo bambino non ha più sentito male alle mani. Credo sia per questo che lo ha cercato tanto, per la felicità che ha provato nel salvarlo». Come se fosse un figlio scomparso, Luciano, che era un alpino vicentino, negli anni lo immaginò crescere, lo vide nei ragazzini che incontra a Longarone, e poi negli adulti che vide passargli accanto.
«Quando mio padre è morto, il 29 dicembre 2005, mi ha chiesto solo una cosa: “Trova il bambino e abbraccialo per me. Io gliel’ho promesso», ha detto Deborah. «Ora quel bambino senza un nome avrà 60 anni, non so nemmeno se è vivo. Ma devo trovarlo ovunque sia, fosse anche solo per portargli un fiore».
Di qui l’appello in tv: «Se sei sopravvissuto al disastro del Vajont, e ti ricordi di un militare da cui non volevi più staccarti, che ti ha portato all’ospedale di Belluno, ti prego, contattami scrivendo a redazioneiene@mediaset.it. Devo solo portarti l’abbraccio di mio padre, che ha pensato a te tutta la vita».
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