Le vacanze nell’Africa remota per regalare una speranza

Iris Poclener, infermiera, in sette mesi ha lavorato in due ospedali in Togo e Uganda: «Non sai mai se il giorno dopo troverai vivo il paziente che hai appena accudito»

LOZZO

Due, meglio di una. Legame sempre più forte quello tra la cadorina Iris Poclener e l’Africa. Programma ormai consolidato: ferie in vacanza in qualche posto esotico, pancia all’aria sotto il sole? Macché. L’infermiera di Lozzo, appassionata di arrampicate ed escursioni ad alta quota, non ci ha pensato due volte ed anche stavolta ha preso i bagagli per vivere una nuova esperienza a sfondo solidale.

«Nel giro di sette mesi sono stata prima in Togo e poi in Uganda», racconta, «ad ottobre ho avuto la possibilità di prestare servizio al Lacor hospital, in Uganda, e non ci ho pensato su due volte. Il tempo di organizzare il volo, le vaccinazioni ed il visto e sono partita dall’aeroporto di Venezia, da sola ma con il solito entusiasmo e la determinazione di vivere un’esperienza nuova; anche se del tutto nuova non è stata visto che è stata la mia sesta volta in Africa».

L’approccio di Iris con il Lacor hospital di Gulu, non è stato però dei più semplici.

«Vi ho lavorato per quindici giorni, ogni mattina mi alzavo al canto del gallo. Una sveglia scandita da profumi indimenticabili e dal suono della campana di una piccola chiesetta situata nelle vicinanze della mia dimora».

Un’esperienza vissuta gomito a gomito con la collega ed amica Cristina Reverzani.

«Con Cristina facevamo il giro medico per la visita dei pazienti. Si corre ad un reparto all’altro, dove l’emergenza chiama. Sala parto, sala operatoria, pediatria o rianimazione, poco importa. Non ci sono orari, bisogna esserci sempre perché passa poco tra la vita e la morte. Le situazioni in corsia sono terribili, drammatiche. La gente attende anche giorni il proprio turno. C’è gente che muore sulle soglie dell’ospedale per infezioni perché non ha la possibilità di comprare un antibiotico. Ragazzi giovani, bambini, che muoiono per mancanza di sangue disponibile o di malaria. La sera mi capitava di salutare i miei pazienti col magone, consapevole che all’indomani magari non li avrei ritrovati. Situazioni di tristezza mista a rabbia per tali ingiustizie che spesso mi hanno tenuto sveglia durante la notte. Il mio obiettivo è sempre stato quello di fare del mio meglio. Non è facile farsi comprendere, lì si parla la lingua Acholi, sono andata avanti a gesti e sguardi ed alla fine mi sono guadagnata la loro fiducia. Per i miei pazienti ero la Muzunghu, la “bianca”».

Per la Poclener c’è stato tempo anche per vivere un’esperienza parallela a quella del Lacor hospital, all’interno dell’orfanotrofio St. Jude.

«Si trovava a 40’ a piedi dall’ospedale, gestito da un padre comboniano originario di Moena, fratel Elio Croce. Ospita 70 orfani dei quali 10 disabili. Sono una grande famiglia, tutti in cerca di momenti di affetto. Sono accuditi dalle “mame”, donne locali che li aiutano nelle attività quotidiane basilari, dal lavarsi al vestirsi al mangiare. I bambini più grandi hanno a disposizione locali dove studiare. Qui ho conosciuto un’altra cadorina come me, Nerina De Martin di Padola. Siamo diventate molto amiche. Nel complesso è stata un’esperienza forte, ho visitato villaggi sparsi nella savana dove la miseria regna sovrana. Acqua e luce non esistono, la gente mangia prodotti della terra e dorme su un giaciglio. La povertà è assoluta, si sopravvive grazie alla provvidenza». —


 

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