L’esperienza del climber Manolo: bisogna portarsi dietro il martello

Maurizio Zanolla: per usare i chiodi lasciati dagli altri serve ribatterli Gli spit ad espansione hanno cambiato il rapporto con la roccia 
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la riflessione

Fidarsi di un chiodo trovato in parete è un azzardo, se almeno non lo si ribatte con il martello per assicurarlo al suo posto e per soppesare, dal suono del metallo nella roccia, la tenuta e la saldezza dell’ancoraggio.

La riflessione a voce alta la fa Maurizio Zanolla “Manolo”, uno dei pionieri italiani dell’arrampicata libera, con alle spalle un solido retaggio alpinistico.

Proprio in Civetta ha compiuto una delle sue prime imprese, nel 1977, la salita in libera di una via classica come la Cassin sulla Torre Trieste. E con i chiodi “il mago” ha un rapporto ispirato a quello dell’alpinismo classico.

«Premetto che non conosco i fatti e non voglio entrare nel merito dell’incidente», dice Manolo, «non voglio fare il moralista: purtroppo gli incidenti possono accadere a tutti. Con i chiodi comunque ho un rapporto basato sul mio retaggio culturale alpinistico. Quei pochi che ho messo ho cercato di metterli bene, portandomi dietro il martello per ribatterli. Ma ormai siamo abituati ad arrampicare con gli spit, i chiodi ad espansione, e con le protezioni fisse, non siamo più abituati ad avere a che fare con i chiodi».

Tra chi frequenta la montagna oggi, è la riflessione che lancia dunque Manolo, non c’è più una esperienza diffusa nell’uso di questo strumento, il chiodo, un tempo l’unico a disposizione prima dell’avvento degli spit ad espansione.

«I chiodi ce li riportavamo a casa, visto che costavano tanto», sottolinea Manolo, «anzi, se potevamo ne toglievamo. E intanto facevamo esperienza, perché se metti il chiodo nella roccia capisci dal suono che fa battendo con il martello se è piantato bene. Ma dopo anni e anni senza più mettere chiodi, di salite in cui ti limiti a infilare un moschettone in uno spit, si perde questa esperienza».

In ogni caso, spiega il forte arrampicatore nato a Feltre nel 1958, un chiodo isolato non offre garanzie sufficienti per allestire una “sosta” o per calarsi.

«Uno solo non basta, ce ne vogliono almeno due», dice Manolo, «e a volte ci si pensa due volte anche ad appendersi ad uno spit».

Serve esperienza, dunque, nel valutare la tenuta di un ancoraggio, nell’allestire un punto di sosta sicuro. E consapevolezza che gli incidenti accadono, anche ai più bravi.

«Bisogna portarsi dietro il martello per ribattere i chiodi», spiega Manolo, «ed essere sempre pronti, muoversi con rispetto in un ambiente, la montagna, dove può sempre succedere qualcosa. Purtroppo l’esperienza non si compra in negozio assieme ai metri di corda. Al giorno d’oggi ci si sente forti, preparati, si fanno allenamenti specifici, ma in montagna comunque bisogna sempre stare estremamente attenti a quello che si fa». —



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