L’ex presidente «Uno shock per tutti la fine della Brigata»
È merito di Arrigo Cadore se questo fine settimana arriveranno a Belluno i tanti italiani che hanno fatto la naja
Inaugurazione della nuova sede ANA
BELLUNO. «Per saper comandare bisogna imparare ad ubbidire». Arrigo Cadore lo ha imparato da ufficiale del Battaglione Belluno della Cadore. Diciotto mesi di naja tra il 1960 ed il 1961.
«Quella lezione vale ancora oggi –, non solo per i militari ma anche per i sindaci e tutti gli altri amministratori regionali. Il comando è condivisione o non è. . . comando. È autorevolezza, se vogliamo anche autorità, ma non autoritarismo. Il comando, a tutti i livelli ed in tutti gli ambienti, è servizio. E come tale richiede rispetto ma anche esercita rispetto».
È merito suo, di Arrigo Cadore, 79 anni, se in questo fine settimana la Brigata Cadore riunisce a Belluno, per la quinta volta, il suo popolo. Dai 300 ai 400mila: tanti gli italiani che in 43 anni hanno vissuto la Cadore come scuola di vita. Soprattutto bellunesi e vicentini, ma anche tanti emiliani. Queste le terre di elezione.
Chi la incontrerà nelle prossime ore – chiediamo al tenente Cadore – dovrà farle il saluto militare e dirle signorsì?
«Magari, mi sentirei onorato» risponde sorridendo l’ex presidente di sezione. «Ma il signorsì non bisogna mai imporlo, neppure pretenderlo. Talvolta è difficile dirlo, ma in tanti casi è più difficile riceverlo».
In campo politico, immaginiamo. Chiosa Cadore: «Le istituzioni e chi le rappresenta esigono rispetto, quindi il signorsì è doveroso, ma non come mero atto di sottomissione, bensì come segno di condivisione, che vuol dire, lo ripeto, rispetto per gli altri e per le loro idee, che è poi anche rispetto per se stessi».
Evidente, dunque, la lezione di vita che Cadore ha interpretato da quel primo giorno di naja, qui a Belluno. L’ultimo signorsì lo ha detto all’ex presidente dell’Ana di Belluno Mario Dell’Eva, che a due anni dalla chiusura della brigata Cadore gli propose di organizzare, insieme ad altri, il primo raduno.
«La Cadore è stata parte fondamentale della nostra vita, è entrata nel nostro sangue. Quando venne chiusa fu come uno shock, per noi militari, ma anche per tutta la provincia. I nostri paesi sono vissuti sulla presenza degli alpini. Se non ci fosse stata la Cadore, oggi, non avremmo la seggiovia del Nevegal. E come dimenticare il Vajont, con tutti quei morti che abbiamo raccolto? È ai piedi della diga che è nata per davvero la prima protezione civile in Italia. Lo storico presidente Bertagnolli, in Friuli fece il resto».
Se Belluno ha meritato la Cadore, meriterebbe anche l’adunata nazionale?
«Sarebbe straordinario, ma impossibile. In provincia arriverebbero ancora più alpini che a Treviso. Non sapremmo dove ospitarli. Preparammo a suo tempo un dossier, ogni tanto lo sfoglio, tiro un sospiro e lo richiudo». Cadore è convinto che gli alpini siano oggi, come ieri, soldati di pace, «anzi di pacificazione, attraverso la solidarietà. Lo dico sempre ai miei: lavorare per gli altri fa bene anche alla salute». Lavorare per gli altri significa saper ascoltare le loro esigenze e rispondere è anche questo un atto di obbedienza. «Certo che sì» conclude Cadore, ritornando all’esperienza di vita negli anni della naja. «Comandare significa saper ubbidire. E, quindi, saper ascoltare». Una filosofia si vita, questa è stata la Cadore.
(fdm)
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