L’hospice funziona, chiesti altri due posti

In quasi nove mesi 60 ospiti e 160 assistiti. I malati di tumore sono circa 300 all’anno
FELTRE. E’ una realtà appena nata, eppure già si pensa a un suo ampliamento, portando gli attuali quattro posti letto a sei. In meno di nove mesi l’hospice “Le Vette”, la residenza protetta per malati terminali, ha accolto più di sessanta pazienti, senza contare i quasi centosessanta assistiti a domicilio. La logica dei numeri è asettica quanto impietosa: nel territorio dell’Usl 2 i malati di tumore sono all’incirca 330 all’anno mentre la legge stabilisce che ci sia un posto letto in hospice ogni 56. Resta il problema dell’assistenza domiciliare: gli infermieri sono troppo pochi.


Sembrava un esperimento, l’ultima frontiera verso la cosiddetta umanizzazione della medicina, e invece si è rivelato un aiuto fondamentale per chi, magari nella solitudine o nell’impossibilità materiale di starsene a casa propria, è costretto a combattere una battaglia decisiva che sa già persa. Un aiuto a combattere se non la malattia quella che in tanti ieri mattina durante l’inaugurazione della cappella interna alla struttura hanno chiamato “angoscia”, l’assenza di vie d’uscita, la morte immateriale della speranza.


Perché un hospice. Per anni se n’è fatto a meno, adesso è un fatto di civiltà, di “umanizzazione” per l’appunto: «L’hospice è di solito la continuazione ideale di quello che è il rapporto di assistenza domiciliare. E’ fiducia, complicità, il poter contare su qualcuno», la premessa di Albino Ventimiglia, anima nonché caposala dell’hospice feltrino. Parlare di successo potrebbe sembrare fuori luogo, ma la realtà dice che i feltrini ne hanno bisogno. Dal settembre 2006 sono state 61 le persone ospitate nei quattro miniappartamenti a disposizione. Di queste solo una non è una malata oncologica allo stato terminale. Nella struttura lavorano sei infermieri professionali e sei operatori. Accanto a loro ci sono una psicologa e tre medici che si alternano.


Ma non basta. «L’obiettivo è arrivare a sei posti letto», rivela Enrico Gaz, presidente dell’associazione “Mano amica”. Per farlo però serve un ampiamento, leggasi finanziamenti: «Stiamo lavorando in tal senso. I presupposti per fare richiesta alla Regione ci sono». Quali siano questi presupposti lo spiega Ventimiglia: «Per legge ogni 56 malati di tumore, la sanità deve mettere a disposizione un posto letto in una struttura protetta come questa. Nel territorio dell’Usl mediamente i malati sono 330». Senza bisogno di un pallottoliere il risultato è per l’appunto sei. Capitolo a parte, che va detto non è di competenza dell’unità di cure palliative, l’incidenza di tumori. Per un’area di 80 mila abitanti la media convenzionale di posti letto è infatti quattro. Un infermiere in più. Ampliamento a parte, l’aspetto più problematico sembra quello dell’assistenza domiciliare. Sono 160 gli assistiti sul territorio. «Ad occuparsene ci sono quattro infermieri a tempo pieno e un part-time. Ne servirebbero altri due. Ogni infermiere dovrebbe seguirne 36», spiega Ventimiglia che sottolinea come la richiesta sia già stata più volte formulata a chi di competenza: «Ma finora non abbiamo avuto riscontri».


Il problema è serio e per capirlo bisogna entrare nell’ottica delle cure palliative e della terapia del dolore, dove il rapporto tra personale infermieristico e paziente non è strumentale alla cura, ma è qualcosa di più profondo. Ventimiglia porta un esempio: «Non è sempre facile garantire la nostra presenza in casa nel giorno dei decessi, quando i primi a dover essere assistiti e aiutati sono i familiari con i quali spesso rimaniamo in amicizia. Ma in questi casi ogni promessa è debito». Il ragionamento diventa poi economico: «Sia il servizio domiciliare che una struttura come l’hospice fanno risparmiare non poco rispetto a un tradizionale reparto. Non siamo un costo passivo. L’Usl riceve 231 euro al giorno per ogni degente nella nostra struttura». Hospice-tabù. «Qualcuno anche tra il personale sanitario preferisce parlare di “casetta” anziché di hospice, eppure la consapevolezza è il primo passo», conclude il caposala, «nonostante i progressi c’è ancora da lavorare».

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