L'Islam e noi. «Ci serve integrazione, non la moschea»
TRICHIANA. Tante tappe sono state raggiunte nel percorso di integrazione. Ma di lavoro da fare ce n’è ancora molto. A spiegarlo è Mohamed Meraga, presidente della comunità islamica bellunese, che in tutta la provincia conta circa 1.400 fedeli.
«All’inizio abbiamo trovato molte difficoltà», precisa. «Poi, piano piano, abbiamo lavorato all’interno della nostra comunità e con gli italiani per cercare di togliere i pregiudizi, che ancora esistono, anche sul posto di lavoro».
Resta il fatto che negli ultimi anni la situazione sta cambiando, «anche perché il mondo è sempre più globale. Anche all’interno della società bellunese ho notato un miglioramento dal punto di vista della comunicazione: le persone locali hanno accettato i nostri progetti che riguardano donne, disabili, bambini».
E sono proprio i più piccoli a dimostrare che l’integrazione è possibile. «I nostri figli, tra loro, parlano l’italiano e non l’arabo», dice ancora Meraga, «e i loro amici sono italiani. Diversi sono nati in questo paese o in questa provincia. Noi stessi, come adulti, abbiamo appreso la cultura del posto».
L’ambito che forse suscita ancora pregiudizi è quello religioso. Non a caso, tra i progetti avviati e previsti per il futuro dal Centro culturale “Assalam-Pace”, nato a Ponte nelle Alpi nel 2009 e guidato dallo stesso Meraga, ci sono quelli di dialogo tra le religioni. E proprio a proposito di riti islamici, ieri mattina erano oltre 300 i musulmani, tra uomini, donne e bambini, che si sono ritrovati al Parco Lotto di Trichiana per la tradizionale “festa del sacrificio”, la ricorrenza più importante per il mondo islamico con quella di chiusura del Ramadan. «Non abbiamo difficoltà a trovare un posto in cui riunirci per la preghiera e gli appuntamenti religiosi», aggiunge Meraga. «Ringraziamo il sindaco di Trichiana che continua a darci questa possibilità qui al Parco. E i centri culturali e di aggregazione sul territorio, da Ponte a Santa Giustina, da Lentiai a Feltre, per il momento sono sufficienti».
Di moschea, sottolineano dal mondo islamico, si potrà parlare in futuro. «Potrà servire se la comunità diventerà più numerosa», commenta il presidente della comunità musulmana. «Ci sembrerebbe molto utile, invece, puntare di più sulle scuole di arabo», evidenziano Elmir Kaduy, libica, con il figlio Yusef e l’amica Warda. «In questo c’è anche responsabilità del consolato arabo, che non manda più in Italia gli insegnanti».
E sul fronte dell’integrazione culturale molto si potrà fare, secondo Meraga, anche con progetti che vedano protagonista la figura femminile. «L’assenza delle donne», fa notare, «era causata da due fattori: il nostro isolarci e il rifiuto culturale della comunità ospitante. Ora ci sono programmi per mogli e madri perché possano uscire dalla chiusura che c’è ancora, ma che tempo fa era più marcata».
Ma da dove arrivano i fedeli musulmani che vivono in provincia di Belluno? «Tanti sono dal Marocco e dall’Algeria», dice Ali Lachihab dell’associazione Al Noor di Santa Giustina, «ma anche da Egitto e Tunisia. Pochi da Macedonia, Pakistan e Bangladesh».
Persone che hanno lasciato la propria terra «per diversi motivi», fa eco Meraga, che parlando di fenomeni migratori ricorda anche la recente tragedia di Lampedusa e il nuovo naufragio di due giorni fa: «Per noi è un disastro, possiamo solo definirlo così. In Sicilia la nostra comunità ha aperto dei centri per la solidarietà. Sappiamo che le decisioni spettano alla politica, ma quello che chiediamo è che la questione venga vista prima di tutto dal lato umanitario, lasciando in seconda linea altri aspetti».
Martina Reolon
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